Dostoevskij, un maestro da riscoprire in pillole

by Fabrizio Simone

A 200 anni dalla nascita di Fëdor Dostoevskij tutti dovremmo interrogarci sulla reale portata della sua opera e chiederci se conosciamo davvero il grande scrittore russo. Basterà aver letto Le notti bianche, Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, Umiliati e offesi, Il giocatore, Memorie dal sottosuolo, I demoni, L’idiota e un’altra manciata di testi per potersi dire suoi estimatori ed essere soggiogati dalla sua penna? Probabilmente sì, perciò neppure le sconvolgenti rivelazioni contenute, ad esempio, nella lettera che il filosofo russo Nikolaj Strachov indirizzò a Tolstoj nel 1913 riuscirebbero ad intaccare la sua fisionomia di santo patrono dei mediocri, dei falliti, dei deboli, dei peccatori, dei colpevoli, dei meschini: «Io non posso considerare Dostoevskij né buono né felice. Era cattivo, invidioso, vizioso. Per tutta la vita fu preda di passioni che lo avrebbero reso ridicolo e spregevole, se non fosse stato nello stesso tempo così intelligente e così perfido. Naturalmente, sulla gente comune la vinceva sempre lui e il peggio è che ne provava piacere e che non si pentiva mai sino in fondo delle sue perfidie. Ne era attirato e se ne vantava. Viskovatov (professore all’università di Jur’ev) mi raccontò che si vantava di essersi… approfittato di una ragazzina, nel bagno, dove gli era stata portata dalla governante».

Eppure nessuno ha saputo scandagliare a fondo l’animo umano meglio di Dostoevskij, penetrando nei recessi più profondi senza provare il benché minimo disgusto di fronte ad un campionario variegato di immoralità, perversioni, ossessioni e bestialità, schierandosi sempre dalla parte di chi soffre (Nabokov calcherà la mano nelle Lezioni di letteratura russa parlando di una vera e propria religione della compassione che sconfina nel sentimentalismo melodrammatico»). Lo stesso Cioran, nei suoi Quaderni, si mostrò spesso debitore nei confronti del grande scrittore, rimarcandone l’affinità: «Pascal, Dostoevskij, Nietzsche, Baudelaire – tutti quelli a cui mi sento affine erano dei malati». Ancora: Tutto sommato, sono solo due i romanzieri che ho letto con passione: Dostoevskij e Proust. Oppure: «Soltanto Dostoevskij e Shakespeare riescono a farmi toccare vette che da solo appena intravedo. Mi fanno andare letteralmente fuori di me, mi proiettano oltre i miei limiti. Ciò che amo in Dostoevskij è il lato demoniaco, distruttivo, l’ossessione del suicidio, insomma l’epilessia». Tra l’altro Cioran riteneva che non essere attratti da Dostoevskij rappresentasse la miglior prova della propria povertà spirituale.

Però concentrarsi soltanto sulla produzione narrativa dostoevskiana ci priverebbe di un’importante serie di riflessioni sociopolitiche, religiose e sull’arte che lo scrittore di Mosca ha disseminato in un’infinità di articoli giornalistici, nelle lettere e nei taccuini, che i lettori italiani possono finalmente leggere in una bella antologia pubblicata dalla raffinata casa editrice milanese De Piante Editore, La bellezza salverà il mondo. Pensieri. Aforismi. Polemiche (160 pagine, 16 euro). Il volume è l’edizione italiana di un libro edito a Parigi nel 1975 dal critico letterario Dmitrij Grisin, impegnato ad estrarre fulminanti aforismi persino dai frammenti inediti.

Sorprende il Dostoevskij critico nei confronti di tanta letteratura a lui coeva (se di Edgar Allan Poe apprezza la forza dei dettagli, il giudizio su Emile Zola non è condivisibile: «è una tale schifezza, riesco a malapena a leggerlo, e da noi è una celebrità, l’astro del realismo»), la sua malcelata ammirazione nei confronti del byronismo («Il byronismo, sia pur momentaneo, fu un fenomeno grande, sacro e necessario alla vita dell’umanità europea, se non a quella di tutta l’umanità») e l’autentica devozione per Puskin, assurto al rango di vate (il suo poema, Eugenio Onegin, che ha ispirato Cajkovskij, è definito «immortale e irraggiungibile», ma in Italia continua ad essere volutamente ignorato dai lettori): «Egli ha compreso il popolo russo e ne ha inteso la missione con tale profondità e ampiezza come nessuno mai. […] Puskin è sino ad ora come il sole sopra tutta la nostra concezione intellettuale russa del mondo. […] Egli è la più piena espressione dell’indirizzo, degli istinti e delle esigenze dell’animo russo in questo momento storico. […] Puskin è il vessillo, il punto di unione di tutti coloro che aspirano all’educazione e allo sviluppo: perché egli è il più artistico di tutti i nostri poeti, di conseguenza il più semplice, il più affascinante, il più comprensibile. […] Tutto per noi deriva da Puskin. Il suo volgersi al popolo in un’epoca così precoce della sua attività, a tal punto senza precedenti né precursori è sorprendente, significò a quel tempo una parola nuova fino ad allora inaspettata, al punto che non si può spiegarlo se non con un miracolo, con la grandezza straordinaria di un genio».

Tra queste pillole se ne segnalano alcune capaci di illuminare anche i più scettici: «Nell’immagine attuale del mondo si presuppongono libertà e sfrenatezza, mentre la vera libertà sta nel saper vincere sé stessi e la propria volontà, in modo tale da raggiungere infine quella condizione morale che permetta di essere sempre, in qualsiasi momento, il vero padrone di sé. La sfrenatezza dei desideri conduce solo alla schiavitù». Non è la lezione di un arido moralista, ma quella di un uomo che si è ritrovato a fare spesso i conti con sé stesso, lavorando magari fino alle quattro del mattino: «Meglio credere che la felicità non si possa comprare con la malvagità piuttosto che sentirsi felici, sapendo di avere permesso la malvagità». Forse il consiglio più bello e più immediato è proprio quello scritto sulla scia del byronismo più eroico: «Meglio sguainare una volta la spada che soffrire all’infinito». Accogliamo, allora, le opinioni e i consigli di questo grande romanziere. Solo così riusciremo ad orientarci nell’intricato labirinto dostoevskiano e a comprendere i difficili meccanismi che regolano i nostri cuori.

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