Carlo Bordoni alla ricerca della comunità perduta: «Vogliamo l’immunità per vivere liberi, ma ci manca il calore della comunità per sentirci vivi».

by Felice Sblendorio

“Solo dissociandosi gli individui possono sfuggire ad ogni contatto mortale”. Le parole del filosofo Roberto Esposito sul destino incerto delle nostre comunità ritornano attuali leggendo il saggio “L’intimità pubblica. Alla ricerca della comunità perduta” (La Nave di Teseo, 320 pagine, 22 euro) di Carlo Bordoni, sociologo, saggista del supplemento “la Lettura” del Corriere e autore con Zygmunt Bauman di “Stato di Crisi”.

In questa bussola di pensiero e senso, capace di analizzare il presente e proiettare il futuro, Bordoni indaga i temi principali del declino del nostro tempo: la fine della società e il dramma della comunità perduta, la globalizzazione e il crollo delle ideologie, le mutazioni familiari, culturali e tecnologiche e il crollo del privato, oramai piegato a logiche di riconoscimento in una realtà sociale fragile, divisa e ulteriormente sfibrata dall’isolamento pandemico. bonculture ha intervistato Carlo Bordoni.

Professore, la pandemia da covid-19 ci ha definitivamente isolati, de-socializzando il nostro quotidiano. Ma quando abbiamo perduto il senso autentico di quella comunità che oggi rimpiangiamo?

Molto tempo prima: da quando si parla di società moderna, quindi da almeno tre secoli. Da allora si è discusso a lungo se la sostituzione del sistema comunitario con quello societale sia stato un bene o un male. Alcuni, a cominciare da Nietzsche, vorrebbero recuperare i valori del passato. In realtà, come è stato dimostrato dall’antropologia, anche nella società sono presenti componenti della comunità, ed è solo l’unione di entrambe che permette un giusto equilibrio. La pandemia ha sacrificato ciò che restava della comunità per fare posto alla “distanza sociale” necessaria a salvaguardarci dal contagio. E improvvisamente è risaltata fuori una voglia di comunità più forte che mai.

Scrive che siamo passati dalla comunità all’immunità. Che cosa vuol dire?

Dobbiamo partire dall’etimo della parola. Comunità deriva dal latino “cum-munus”, cioè col dono, che indica un obbligo reciproco, quello che lega le persone tra loro. Il suo contrario è immunità, “in-munus”, e dunque senza alcun obbligo. L’immunità è un privilegio, una conquista: è la condizione che si viene a creare nella società moderna, dove i rapporti tra i cittadini sono regolati da leggi e non più da obblighi personali. Quindi, come ha scritto Roberto Esposito ben prima della pandemia, abbiamo bisogno dell’immunità, di quel privilegio – non più riservato a pochi – che ci permetta di vivere in piena autonomia e rispettosi delle regole. Inoltre, con la vaccinazione otteniamo anche l’immunità sul piano sanitario. Vogliamo l’immunità per vivere liberi, ma ci manca il calore della comunità per sentirci vivi.

Prima della pandemia vivevamo in una società individualizzata, oramai incapace di costruire legami, condivisioni, reti. Un collettivo più umano, con le sue moltitudini, sarà indispensabile? Questa voglia di prossimità con l’altro, che riscopre i valori della condivisione e della vicinanza, è una reazione al trauma subito oppure innescherà un nuovo modo di vivere assieme?

Qui la questione è complessa. È vero che abbiamo bisogno di più condivisione, di stringere legami più stretti col prossimo, ma di fatto tendiamo a essere sempre più individualisti. In principio non sarebbe negativo, poiché se guardiamo allo sviluppo storico della civiltà, il riconoscimento del valore dell’individuo è sempre stato un obiettivo primario. Pensiamo alle lotte per l’affrancamento, l’autonomia, la libertà dal bisogno, l’istruzione, l’uguaglianza. Tutte in funzione dell’individualità, come pure i diritti sono individuali. Ora ci accorgiamo che un eccesso di individualismo (quello che Bernard Stiegler ha indicato col processo di dis-individuazione) porta a uscire dalla società, a isolarsi, a vedere l’altro come un possibile nemico. Non sappiamo come evolverà la situazione, ma ci sono emozioni come la paura e la rabbia che lottano contro la voglia di vicinanza. Per ora si ricerca una compensazione nei social, nel virtuale.

Nell’ultimo anno, con maggiore intensità, le distinzioni fra pubblico e privato sono sfumate. Perché la preoccupa così tanto la dissoluzione del privato?

Perché il privato è importante. Non bisogna confonderlo con la trasparenza, la sincerità, la disponibilità. Il privato è ciò che siamo, la consapevolezza del nostro essere; è il valore irrinunciabile che cresce con la nostra personalità. Fatto di memoria, immaginazione, sogni, gusti, conoscenze e tutta un’altra serie di componenti che sarebbe lungo enumerare. È la nostra parte più intima, è la complessità dell’essere che deve restare protetta. Dissipare questo “tesoro”, bruciandolo, esponendolo a tutti indiscriminatamente, equivale a una perdita di noi stessi. A una diminutio della nostra personalità.

Esibire il privato è l’ultimo modo per farsi riconoscere in un tempo senza più coordinate?

Sì, è così. Questa esposizione dell’esperienza privata, del vissuto quotidiano, porta a considerare reale il mondo rappresentato dai media e autorappresentato. Così, si modificano le coordinate spazio-temporali, in cui si manifesta il vissuto del privato, e solo ciò che appare finisce per essere reale. Si annulla la distanza tra mondo reale e mondo rappresentato e solo in quest’ultimo ambito sembra sia possibile autodeterminarsi, agire, esistere e addirittura essere riconosciuti.

Si invoca tanto l’autenticità, la confessione. Ma quanto possiamo essere autentici in un reale così omologato?

L’autenticità è ovviamente solo una pretesa di coloro che si espongono sui social. Di fronte a una marea di confessioni pubbliche è normale che ci si aspetti una sorta di omologazione, dove le differenze si appiattiscono e le voci si disperdono nei clouds. Uno dei problemi maggiori è infatti l’affollamento in rete di troppi pretendenti all’attenzione altrui, dove è sempre più difficile emergere ed essere riconosciuti, oltre che riconoscere l’effettiva autenticità. Inoltre, è nel mostrarsi che si cede all’omologazione, perché si riduce l’umano a una rappresentazione come “cosa”, a una narrazione come tante.

In questi giorni ha stupito molto il silenzio di Mario Draghi, nuovo Presidente del Consiglio. Un caso isolato, se consideriamo l’esposizione plateale del privato dei nostri politici. Perché, dal suo punto di vista, questa mancanza di filtri può innescare processi antidemocratici?

Non so se è proprio questo a innescare processi antidemocratici. Direi piuttosto che accompagna significativamente il mutamento dei partiti politici, sempre meno caratterizzati da contenuti ideologici significativi e da progetti distinguibili da altri. Nella progressiva omologazione e quasi intercambiabilità dei singoli partiti, dove i proclami di principio e d’azione cambiano con rapidità e senza giustificazione, che non sia quella di cavalcare il consenso. In un panorama politico che appare piatto, i partiti si affidano sempre più al carisma del leader, il cui nome è ormai inserito nel simbolo e nel logo elettorale, come garanzia e segno di una distinzione altrimenti difficoltosa. Ma il fatto più significativo, a dimostrare la poca efficacia di ogni stimolo ideologico, è la pubblicizzazione della vita privata degli uomini politici. Serve a mostrare il loro lato umano, ad avvicinarli alla gente comune, ma anche a renderne familiare l’immagine, il cui ricordo sarà utile al momento del voto. E serve soprattutto a spostare il giudizio dell’elettore dall’operato a fatti marginali, privati, slegati dalla politica.

Parla di populismi liquidi: in questi anni, in Occidente, hanno trionfato partiti che rinnegavano ideologie, visioni competenti sul mondo, idee lungimiranti. Il compimento populista è una democrazia depoliticizzata? 

Esattamente. Lo predicano ormai da tempo gli esponenti internazionali del neo-populismo, quella parte decisamente reazionaria che considera superata la distinzione fra destra e sinistra. Hanno radici socialisteggianti, come la difesa degli interessi popolari, la suprema volontà della base, la democrazia diretta, l’eliminazione degli intermediari, la sfiducia negli intellettuali. Ma poi, una volta raggiunto il potere, rivelano il vero volto di ogni autoritarismo che finisce per imporre scelte dall’alto.

I populisti, scrive, sono movimenti anti-intellettuali. In questi decenni, però, la società – al di là dei populisti – ha prodotto una cultura frammentata, un’industria culturale anestetizzata, uno sguardo intellettuale uniforme.

Il populismo non sarebbe cresciuto senza trovare un terreno preparato ad accoglierlo. Molta responsabilità hanno, in questo senso, movimenti di opinione e correnti di pensiero, a cominciare dal Post-moderno, nel cancellare le ideologie, quelle granitiche costruzioni orientative che caratterizzavano i partiti. È stata una sorta di “liberi tutti”, ma ha lasciato spaesati e privi di indirizzo politico, dove è stato facile reintrodurre il qualunquismo, il populismo e la demagogia: tutte componenti che erano state bandite d’ufficio e che hanno ottenuto invece libertà di circolazione e persino una patente di nobiltà.

Arriva a paragonare la nostra a un’umanità farfalla.

È una metafora che si riferisce alla precarietà del sapere. Un sapere magari di grande profondità, ma destinato a durare quanto un battito d’ali. Coloro che sanno di non sapere sono la minoranza, ma destinati ad aumentare di fronte alle prove disastrose della presunzione dilagante. Sono i rappresentanti del dubbio, di un doveroso recupero della coscienza illuminista. Perché il rapido evolversi delle conoscenze renderà necessario aggiornarsi continuamente, cancellando il superfluo, e con esso l’esperienza precedente. Per questo finora sono avvantaggiati coloro che non sanno, gli incompetenti. Col rischio che siano loro a prevalere, a costituire il grosso di quell’umanità-farfalla che non terrà conto dell’esperienza. C’è da sperare che il sapere accumulato nei secoli non sia considerato inutile, grazie al privilegio del dubbio, e che il prossimo step, l’intelligenza artificiale, sia così intelligente da capirlo.

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