Carlo Piano: “Alla ricerca di Atlantide con mio padre”

by Felice Sblendorio

Il regesto delle opere più significative di Renzo Piano è una sintesi che fallisce nel suo intento: ci sono troppe bellezze imponenti costruite in tutto il mondo da elencare. L’elenco completo, che comprende anche i progetti in realizzazione e futuri, chissà quante pagine occuperebbe. Occupa parecchie pagine avvincenti e mai banali, invece, il libro “Atlantide. Viaggio alla ricerca della bellezza” (Feltrinelli, 300 pagine, euro 19,00), scritto assieme a suo figlio Carlo: una riflessione profonda sul senso del costruire, sui luoghi e sulla città perfetta.

In una sorta di fuga a due voci in cui alcuni concetti, valori e ideali ritornano continuamente, Renzo e Carlo Piano tentano di raccontare le idee che prendono forma e gli spazi che trovano vita grazie al processo creativo dell’architetto, del costruttore. Non di un semplice costruttore, però: Renzo Piano è considerato uno degli architetti più importanti a livello internazionale, il maestro della luce, partito da Genova alla conquista delle sue mille forme diverse di Atlantide. bonculture ha intervistato il giornalista Carlo Piano, autore del libro e figlio di Renzo, per scoprire qualcosa in più sul professionista e sull’uomo.

“Atlantide” è un viaggio, una traversata in mare, ma è anche un dialogo fra un padre e un figlio: come ha convinto suo padre?

È stato un lavoro lungo e complesso convincere mio padre a realizzare un viaggio del genere, al limite fra realtà e immaginazione. Un viaggio in mare alla ricerca di Atlantide è stato la cosa più naturale per tentare di raccontare il suo mondo. Mi sono prestato a raccontare i mesi di navigazione e di vissuto sul Magnaghi come fece Rustichello da Pisa con Marco Polo ne “Il milione”. Loro, però, erano in prigione. Noi, su una barca, per un viaggio in mare: non poteva più sfuggirmi.

La città perfetta, alla fine del viaggio, diventa un pretesto: idealtipo di bellezza, di buono, di giusto. Quanto c’è di politico nel valore della bellezza?

Inseguire Atlantide significa inseguire il pezzo imperfetto che manca a tutti noi. In ogni cosa della nostra vita c’è una sorta di insoddisfazione, quel poco che manca per raggiungere l’idea perfetta. Per un architetto essere alla ricerca della città perfetta credo sia il massimo. Questo viaggio, quasi una scalata alla ricerca della perfezione, tocca alcune delle principali opere di mio padre. In tutti i suoi progetti c’è una tensione alla bellezza quando i luoghi sono costruiti bene. Costruire bene, costruire nel bello, è un gesto politico. Le nostre periferie, al contrario, costruite molto spesso con sciatteria, producono risultati sociali ostili.

Gli spazi urbani generano comportamenti.

Esatto. Una cosa bella è, quasi sempre, una cosa buona, giusta, che ti cambia. La bellezza ci rende migliori, ma non grazie al riflesso di una bellezza estetica, ma ad una bellezza profonda, sociale direi.

Il bello e il buono sono stretti alleati della pace: edificare è un gesto pacifico?

È un gesto di pace perché mette insieme tante persone attorno ad un progetto, attorno alla costruzione di qualcosa che, simbolicamente, è il contrario della demolizione, della distruzione.

Costruire unisce. Nel libro raccontate il grande cantiere di Postdamer Platz a Berlino.

A Berlino c’erano cinquemila operai provenienti da venti nazionalità diverse: un momento di vera integrazione. Quando il premio Nobel Mario Vargas Llosa visitò con mio padre quello spazio che, dopo il Nazismo e la Guerra Fredda aveva rappresentato uno dei luoghi più intolleranti della storia europea, rimase stupito. Quel luogo di dolore fu ricostruito da un crogiolo di razze che si stavano integrando per lavorare alla stessa cosa: la storia scritta al contrario. 

Suo padre è un maniaco della costruzione. È vero che ha una filosofia particolarissima per costruire i castelli di sabbia?

Ha una passione smisurata per i castelli di sabbia. È convinto che la sua carriera di architetto sia cominciata quando da ragazzo costruiva castelli sulla spiaggia di Pegli a Genova. Ripete sempre che la cosa importante, più della struttura, è come il castello gioca con l’acqua: lo deve raggiungere ma non lo deve distruggere, deve rimanere non troppo vicino all’onda ma mai troppo lontano dall’acqua. È un lavoro di preparazione alla ricerca del punto giusto per una cosa che è effimera, destinata a scomparire. Da piccoli ci abituava a fotografarlo mentalmente. Bisognava farlo e poi andarsene, senza pensare al crollo.

Le posso chiedere a quale opera di Renzo Piano è più affezionato?

Il Beaubourg, il Centro “Pompidou” di Parigi. All’epoca ero un bambino, frequentavo le scuole elementari lì, ma ricordo benissimo quel periodo. Quella è l’opera a cui siamo tutti più affezionati. Se non ci fosse stato il Beaubourg, forse, non sarebbe esistito professionalmente Renzo Piano. Lui e Rogers, perfetti sconosciuti all’epoca, vinsero quel concorso contro 680 studi d’architettura. Sicuramente avevano capito delle cose importanti, però chissà come andò…

L’architettura molto spesso descrive il tempo in cui viviamo, ma altre volte invece lo anticipa. Suo padre costruì a New York il primo grattacielo dopo l’11 settembre. L’idea di leggerezza e luce quella volta fu un vero atto oppositivo ad una certa idea di mondo, non crede?

Sicuramente. Con la proprietà del New York Times, il 14 settembre, tre giorni dopo l’attentato, ci fu una cena per decidere cosa fare. All’epoca c’era un movimento di pensiero che non riteneva giusta la costruzione di un grattacielo dopo quello che era successo. La paura aveva fatto emergere la voglia di rifugiarsi, costruire bunker, fili spinati. Mio padre e la proprietà del giornale optarono per il contrario: un grattacielo trasparente per vedere al di là delle cose, un’eterea apertura contro il buio e la violenza dei talebani. Quel luogo, concepito come un luogo civico, sfidò la paura: il piano terra, infatti, fu aperto a tutti. Nessuna sicurezza, la città doveva entrarci, mescolarsi con l’edificio, viverlo.

Ma lei lo sa come nasce un progetto creativo dell’architetto?

È molto difficile veder nascere un progetto di mio padre perché lui ha sempre un foglietto in tasca e, ogni tanto, senza dire nulla, si distacca e schizza qualcosa. Così nascono le sue idee. Poi, sicuramente, il progetto evolve con il confronto con il territorio: non disegna mai niente, neppure una riga, prima dell’incontro e dello scambio di visioni con i luoghi, la comunità, gli spazi.

Questo libro che spinge all’avventura non è una banale agiografia. Suo padre, invece, che rapporto ha con il successo, con quella parola associata a lui che descrive più la fama che la sua professione?

Odia la parola “archistar”, perché dice che è tutta concentrata sullo spettacolo e non sul contenuto. La butta sull’artista, sul glamour.

E lui che viene dai cantieri della periferia genovese…

Lui si sente un costruttore e i cantieri sono la sua vera passione: è quella la sua natura.

Chi lo conosce appena lo descrive come un pignolo di qualità. È vero che all’inizio di un progetto rifiuta quasi sempre la richiesta?

È un po’ come i bambini, quando sta facendo una cosa non vuole essere disturbato da altro. All’inizio dice sempre no, ma non per arroganza, direi quasi per necessità. Quando progettò la chiesa per Padre Pio a San Giovanni Rotondo per convincerlo, per quasi un mese e mezzo, Padre Gherardo del Convento dei Cappuccini inviò a mio padre ogni mattina un fax con una benedizione personale. Alla fine, grazie alla loro costanza, accettò.

Il 14 settembre festeggerà ottantadue anni: da figlio sa qual è il suo errore o il suo rimpianto più grande?

Umanamente non lo so, non me l’ha detto e forse non l’ho torturato abbastanza. Da perfezionista lui è sempre alla ricerca di Atlantide, della bellezza perfetta. Nel libro racconto i tanti appunti critici alle sue opere che mi ha raccontato con dovizia di particolari durante il viaggio.

Forse un rimpianto è la musica, più di una passione.

Quella è un’invidia, più che un rimpianto. Lui amava tantissimo la musica. Suonava la tromba ma, nonostante la sua totale passione, non era molto dotato. Dobbiamo Renzo Piano a Gino Paoli, fu lui a convincere mio padre a smettere di suonare e fare altro.

Paoli e suo padre sono cresciuti all’ombra del Ponte Morandi, crollato miserevolmente in un giorno d’estate. Che gesto è stato il progetto di Renzo Piano per il nuovo tratto del Polcevera?

Forse è stato un gesto di generosità, forse di responsabilità. Per noi genovesi il ponte era un compagno di vita: quando ritornavi e quando arrivavi c’era, era lì alla partenza e al ritorno. Il 14 agosto mio padre era in montagna e mi chiamò subito. Era incredulo. Qualche giorno dopo si è subito mosso per dare il suo apporto: i ponti, a differenza dei muri, anche nel dolore, uniscono. Da genovese e da Senatore a vita non poteva tirarsi indietro.

In questo viaggio un padre e un figlio sono accomunati dal mare, dove è più difficile misurare tutto e oltrepassare i confini significa abitare la frontiera. Qual è la cosa più bella che eredita da quell’uomo di mondo che è l’architetto?

Proprio l’amore per il mare. Che vuol dire molte cose: avventura, curiosità, tolleranza. Per un genovese il mare non è l’ostacolo, è la via per andare oltre. Per scoprire il mondo, per sentirsi parte dell’insieme. 

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