“Ho ricostruito il ruolo delle immagini di spalle in duemila anni di narrazione nella storia dell’arte”. L’intervista a Eleonora Marangoni

by Michela Conoscitore

Esistono autori che scrivono, appassionando, di eventi storici. Quelli che amano analizzare con concretezza letteraria i rapporti umani. E ancora, ancora: le infinite possibilità del narrare regalano ai lettori anche quegli scrittori che possiedono una peculiare abilità nel raccontare con levità ed eleganza di aspetti, sentimenti ed evoluzioni del vivere umano che se non sfuggono, si sottovalutano o non si comprendono. Loro forniscono la chiave, spalancano finestre su mondi affascinanti che si aprono su altre illimitate terre, esperienziali e spirituali, da esplorare.

L’identikit di Eleonora Marangoni è questo, scrittrice che possiede l’abilità di saper raccontare delle ‘cose deliziose’, come ha delineato nel suo primo romanzo Lux semifinalista al Premio Strega 2019, che affollano il mondo e che lei sa accarezzare con parole sapienti e soavi.

La scrittrice torna in libreria con tre, diversissime fra loro, nuove uscite per le case editrici Neri Pozza, Johan&Levi e Feltrinelli che ha raccontato in questa intervista a bonculture, tra narrativa, arte e cinema.

Dopo Lux, torni in libreria con tre nuove uscite letterarie. Partiamo da L’allegra brigata (Neri Pozza Editore, pp. 192, 18€): come è nato il progetto del vostro collettivo di scrittori con questa raccolta di racconti sulla pandemia?

Il libro L’allegra brigata nasce dall’idea della responsabile ufficio stampa di Neri Pozza, Daniela Pagani. Mi ha chiamata all’inizio del famigerato lockdown, e in quel momento molti, inclusa me, erano stati travolti dall’onda della pandemia. Daniela mi ha descritto il progetto, l’idea era quella di raccontarsi storie tra noi narratori di Neri Pozza. Ci ho voluto riflettere un po’, perché appunto in quel periodo non riuscivo a leggere e a scrivere. Poi mi sono detta di provarci, anche perché ho percepito l’invito di Daniela come un incoraggiamento. Il titolo, magari, dà da pensare in tempi che tutto sono tranne che allegri ma, se ci pensi, è anche un modo per resistere. Il racconto si ispira ad una reale vicenda: una mia amica francese, da un po’ stava riflettendo sul rapporto col marito, e all’inizio della quarantena l’ho risentita per aggiornarci. Diversamente dalla protagonista del racconto, la mia amica è rimasta in famiglia. Ma, per lei mi sono immaginata un’evoluzione differente.

La libertà della protagonista del tuo racconto, Rue de Vertbois, Anne, comincia quando termina quella del resto del mondo con l’inizio della quarantena: cosa hai voluto mettere in evidenza con la sua storia?

La quarantena è stata una condizione collettiva in cui, però, ognuno è stato costretto a rispecchiarsi in sé stesso. Siamo stati forzati a fermarci e a chiederci se fossimo contenti o meno delle vite che stavamo conducendo. Il lockdown è stata anche un’occasione per reinventarci, se vuoi, e guardarci da fuori. Tutto è avvenuto in un modo piuttosto bizzarro, ma molti hanno ottenuto nuove possibilità o si sono resi conto di essere nei guai. Spesso comprendiamo cose su di noi grazie a rivelazioni impreviste. Anne sembra che scelga di abbandonare la famiglia nel momento peggiore, ma potrebbe essere anche quello migliore. Bisogna avere una doppia prospettiva sulla situazione.

Viceversa (Johan&Levi, pp. 160, 25€), invece, si distingue per tematica e strutturazione: potremmo definirlo un divertissement artistico e letterario?

Il libro è un’esplorazione generale anche se intima, perché inizia con un’immagine di me risalente a cinque anni fa mentre effettuavo l’ultimo trasloco. In quel momento mi sono resa conto che sono anni ormai che mi circondo e colleziono figure di schiena. E lì mi sono chiesta, cosa c’è dietro una propensione visiva del genere? C’è un lungo studio dietro Viceversa, ho ricostruito il ruolo di queste immagini di spalle in duemila anni di narrazione nella storia dell’arte. Quindi il libro è un insieme di visioni mie e creazioni fattuali, vere e documentabili. Un divertissement documentato, studiato e ragionato.

Il sottotitolo del libro è: Il mondo visto di spalle. Infatti come abbiamo già detto, è un excursus tra arte e letteratura di soggetti che catalizzano l’attenzione non mostrando il viso e lasciando l’altro nell’indefinito. Qual è la fascinazione che queste figure esercitano su di te?

La bellezza del non detto e del mistero. Ognuna di queste figure ci obbliga ad immaginare, costruire e raccontare quello che non ci dicono. È un po’ come se loro, involontariamente, raccontassero e si esponessero perché sono fragili, mentre noi siamo intenti a spiarli. Allo stesso tempo, però si negano. Quindi c’è questo movimento ambivalente, di rivelazione e racconto, poi reticenza e mistero. Queste immagini ci obbligano ad uno sforzo, ci forzano a mettere in moto il cervello e anche il cuore, ci rendono vivi in un mondo che è sempre frontale e piatto. Oggi tutto risulta banalizzato, molto letterale e didascalico. Bisogna essere predisposti a queste immagini: quando raccontavo che stavo scrivendo un libro sulle figure poste di schiena le reazioni erano di entusiasmo o di straniamento. Ma detto questo, credo che gli amatori del genere saranno soddisfatti.

Il modo di dire ‘voltare le spalle’ racchiude un’accezione negativa. Con Viceversa, invece, hai scoperchiato un vaso di Pandora apportando a questa postura infiniti significati e spiegazioni. Quindi ribaltando il modo di dire, chi volta le spalle, secondo te, è più portato a comprendere i segreti del mondo?

Dipende. Ognuno di loro è differente. Loro rimangono di spalle per proprie motivazioni, diversissime: sono di spalle per proteggersi, per sedurre, per ingannarci o per distrazione. Ogni immagine ha una valenza esclusiva, sono spinte in una dimensione immanente: una figura di spalle invecchia meno di una figura frontale perché è più assoluta e vaga, e quindi rimane più universale.

Nel capitolo ‘Amativeness’ di Viceversa fai un richiamo anche al cinema di Michelangelo Antonioni e Monica Vitti. Il tuo prossimo libro, E siccome lei, in uscita per Feltrinelli il 29 ottobre, parla proprio della grande attrice. Perché hai deciso di scriverlo?

Perché mancava. Per me è una presenza regale nella cinematografia del nostro Paese. Esistono molte biografie su di lei, ma io volevo raccontarla narrativamente. Non soffermarmi sui dettagli biografici, ma sui suoi ruoli al cinema. Perché sono sorprendentemente diversi e unici tra loro, l’incarnazione della frase di Walt Whitman, sono vasto e contengo moltitudini. Monica Vitti è un’infinità: è fredda, super-comica, distante, vicinissima, democratica, bionda, rauca. Per mesi mi sono chiesta se avrei dovuto soffermarmi sulla Vitti antoniana o su quella monicelliana, poi però ho compreso che dovevo raccontarle tutte. È stata un’impresa un po’ folle, da gennaio ho visto solo suoi film, ha una filmografia sconfinata che conta cinquanta lungometraggi.

Se dovessi consigliare un suo film, quale sceglieresti?

L’Avventura, però guarda è una scelta molto sofferta perché in ogni suo film c’è molto di sè stessa. In questo, però, lei è il non plus ultra. Tra i minori, invece, Ti ho sposato per allegria.

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