“La squadra che sogna”: la filosofia di un uomo-simbolo e di un Paese che scopre il volley

by Francesco Berlingieri

Giuseppe Pastore
La squadra che sogna
(66thand2nd, 197 pagine, 17 euro)

Il 30 settembre del 1989 è un sabato. In camera, la camera che divido con mia sorella, c’è più confusione del solito. Antonio ha poco più di un anno. E dorme. Di là in cucina, come ogni sabato che si rispetti, c’è nonna. L’aria sa di chiacchiere. Io sono appena rientrato dal solito giro randagio coi soliti quattro gatti. Dovevo pavoneggiarmi dell’impresa di aver scovato, in un’edicola assai fuori mano, una cassetta con otto – otto! – giochi di calcio per il mio 64. Tra cui Emily Hughes. Ho disseminato invidia tra i miei pari. E, soddisfatto, sono dinanzi al mobiletto basso, nero e dalle ante di vetro, su cui mio padre ha da poco deciso di issare il televisore “piccolo”. Lo accendo. È sera. È quasi autunno. Il mio periodo.

Sulla Rai c’è una partita. Di pallavolo. Sono in quell’età che oscilla meravigliosamente tra la monocultura calcistica e la febbrile ricerca d’altro. L’età che prepara a Telecapodistria. Non cambio. Vedo il pallone andare di qua e di là, tendere al suolo, risalire. Vedo, nei colori sovraesposti, le facce dei nostri – perché è l’Italia che sta giocando – e sento la voce di Jacopo Volpi. In un lasso di tempo infinitesimale, succede. Mi appassiono. Mi isolo dal mondo e navigo, nella strana confusione di casa, fissando lo schermo posizionato sullo strano podio nero. Mi appassiono. Divento – ma questo lo saprò solo molto tempo dopo – il risultato evidente, tangibile, della cura che Julio Velasco sta applicando alla pallavolo italiana. Della rivoluzione velaschiana: una nazionale senza trofei, una squadra ignorata dai media e tirata su ad alibi, presa di petto, scossa e trasformata in un mito pop. Il 30 settembre del 1989 superiamo – alla prima plurale, perché la militanza al televisore certifica ormai la mia appartenenza – l’Olanda e ci prenotiamo per la finale di Stoccolma, dove contenderemo ai padroni di casa il titolo europeo. Così, di ritorno dallo “Zaccheria”, dove con uno squillante 4-0 abbiamo sommerso il Padova, corro a conquistare e a consolidare la mia posizione sulla sedia in camera. C’è la finale. Ci tengo. Sono un seguace dell’Italia di Velasco.

1990, il Mondiale

Anche se non sembra, questo è il cuore pulsante della recensione de La squadra che sogna, di Giuseppe Pastore from Mola di Bari. Già. Perché i libri come il suo sono destinati a fare questo, anche quando non lo vogliono: a smuovere i ricordi come una tormenta, a soffiare tra le rimozioni, a godere della pesca miracolosa e del miracoloso riaffiorare. Velasco parla a Zorzi, Gardini, Cantagalli, Lucchetta, Giani, in una palestra del palasport in legno di Stenebyen? Bene: tu non puoi fare a meno di chiederti dove fossi e cosa stessi facendo in quel preciso momento. È la poderosa macchina della memoria collettiva. Della ricostruzione del “noi”. Se poi, a questo “gioco al massacro”, aggiungiamo anche una scrittura a briglia sciolta, elegante senza compiacimenti, colta senza ostentazione, zeppa di Sudamerica, di contesto e di citazioni musicali più o meno svelate, e allora il libro ti richiama all’ordine ad ogni distrazione e lo consumi in due o tre sessioni. Compresi i momenti in cui sei costretto ad ammainarlo su un supporto di fortuna perché gli occhi si spalancano sul passato, con le sue nostalgiche reti a precipizio, i suoi baratri stupendi. E sospiri: dell’Europeo – ultimo atto, non solo cronologico, dei lussureggianti anni Ottanta – e di Bernardi mani-fuori al Maracanazinho, “Campioni del mondo!”; dei Goodwill Games, della World League. Sospiri persino sul Pio Albergo Trivulzio. E allora capisci che sono entrati in ballo i fantasmi della malinconia. Ed è altra acqua, che scorre parallela.

Ma La squadra che sogna è principalmente un sano e robusto libro di filosofia: la filosofia di un uomo-simbolo, di un esule pensatore, capace di attirare le fusa della politica come i fulmini della contesa; la filosofia di un gruppo che ha saputo osare l’impensabile e superarlo di slancio, traducendo la palestra dello sport in scuola dell’esistere, del saper stare al mondo; la filosofia di un paese che scopre il volley e, come al solito, si divide: tra chi prende ad amarlo con l’innocenza e l’intensità che merita e chi, cinicamente, gli si precipita addosso per farne banchetto da business: Berlusconi, Gardini, Benetton. Giusto il tempo di sparigliare il tavolo e farsi sommergere da Tangentopoli. Così fanno i capitani d’industria. E gli sciacalli. La filosofia di un ragazzo del 1985 che decide di raccontare le sue passioni attraverso la storia della squadra di pallavolo più forte di sempre, facendo scorrere più di una lacrimuccia a quelli come me, che con l’Italia di Velasco hanno infranto il dispotico monopolio del calcio su tutto il resto.

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