Le emozioni nascoste delle piante di Didier Van Cauwelaert e la testimonianza trepidante delle ortensie

by La Magna Capitana

Quando si parla di linguaggio dei fiori la prima cosa che viene in mente è la florigrafia vale a dire l’associazione di un significato ad ogni specie per comunicare i nostri sentimenti a chi riceve in dono una composizione floreale.

Le rose rosse svelano l’amore appassionato, le gialle la gelosia o l’infedeltà, il girasole indica sussiego o rispetto, le violette simboleggiano il perdono, le calendule il pentimento…

Nessuno sospetta, però, che le piante hanno sviluppato, ormai da milioni di anni, un proprio linguaggio privo di parole, ma ricco di sistemi di comunicazione a volte più complessi, utilizzato per diversi scopi: ad esempio allertare gli individui della stessa specie in caso di aggressione da parte di un predatore.

Fiore di Ortensia (ph. Pixabay)

Esse rappresentano le prime forme di vita comparse sul nostro pianeta e la loro capacità di liberare nell’ambiente ossigeno attraverso la fotosintesi clorofilliana ha permesso di creare le condizioni ideali per lo sviluppo di tutte le altre specie viventi.

Gli sciamani affermano che “gli uomini sono il sogno delle piante” e in fondo un po’ è vero. Se esistiamo lo dobbiamo a loro. Riflettiamoci! Dipendiamo a tal punto dalla loro presenza da non poter sopravvivere che per pochissimi mesi se all’improvviso scomparissero in ogni angolo della Terra.

Eppure continuiamo a mostrarci ingrati nei loro riguardi deforestando, inquinando e rendendo spesso l’ambiente ostile alla loro riproduzione.

La nostra supponenza ci porta a considerarle appena poco più importanti degli oggetti inanimati. Non ci sfiora minimamente l’idea che possano provare emozioni al pari di un essere umano.

A tal riguardo è illuminante la lettura del saggio divulgativo Le emozioni nascoste delle piante. Come si esprimono, comunicano e interagiscono i vegetali (Feltrinelli, 2021) di Didier Van Cauwelaert.

Secondo lo scrittore francese le ricerche negli ultimi decenni hanno dimostrato che le piante “sono capaci di sperimentare e di mettere in pratica […]un’intera gamma di emozioni, quali la paura, l’umiliazione, la gratitudine, l’immaginazione creativa, l’astuzia, la seduzione, la gelosia, la cautela, la compassione, la solidarietà, la trepidazione…E, come è stato dimostrato di recente, sanno anche, con mezzi dai più straordinari ai più semplici, comunicare quello che provano”.

Ad esempio se danneggiate brutalmente non dimenticano il loro aggressore. Il “turbamento” che provano in sua presenza può essere misurato da strumentazioni in grado di registrare variazioni dell’attività elettrica. Nel Wisconsin qualche anno fa la “testimonianza” di alcune ortensie è servita a smascherare un assassino.

L’omicidio era stato commesso in una serra ed era stato preceduto da una colluttazione che aveva danneggiato alcune piante. Un esperto suggerì di condurre i sospettati sul luogo del delitto e di collegare gli elettrodi di un oscilloscopio alle foglie delle ortensie.

All’ingresso dell’assassino venne registrato sullo schermo dello strumento un picco. La prova venne ritenuta ammissibile in tribunale e la sua validità fu confermata dalla successiva confessione dell’omicida.

Sensibili certo, ma anche molto furbe! Il caso dell’orchidea di Drake ce lo dimostra in maniera lampante.

Questa lunga erba australiana dalla struttura molto semplice e poco invitante, per attirare gli insetti impollinatori ha riprodotto al centro del suo fiore una struttura che somiglia in modo impressionante alla femmina della vespa della famiglia dei tinnidi. Il maschio, richiamato dai feromoni che la pianta rilascia e che somigliano chimicamente a quelli dell’insetto, tenta l’accoppiamento con la finta femmina. Appena si accorge dell’inganno vola via  portandosi addosso una cospicua dose di polline che verrà rilasciato su un’altra orchidea “truffaldina”.

Innocue imbroglione per riprodursi, ma all’occorrenza, per difendersi da un’eccessiva predazione, anche diaboliche assassine.

Kudu del Transvaal (ph.Pixabay)

Ne sa qualcosa il Kudu del Transvaal, un’antilope allevata in Sudafrica, ghiotta di foglie di Acacia.

Negli anni ’80 rimbalzò da una parte all’altra del pianeta la notizia del suicidio di massa di interi allevamenti. Gli allevatori inizialmente non riuscirono a spiegarsi i numerosi cadaveri rinvenuti ai piedi delle piante di cui normalmente essi si cibavano. Si erano lasciati morire di fame.

La soluzione all’enigma arrivò dopo molti mesi di ricerche. Le acacie avevano reso tossiche le proprie foglie aumentando il contenuto di tannini e spingendo le antilopi a preferire il digiuno piuttosto che soccombere in preda a lancinanti dolori addominali.

Ciò era accaduto perché le piante avevano avvertito maggiormente la pressione della predazione a causa delle recinzioni poste dagli allevatori per limitare gli spostamenti degli animali. Eliminando le suddette recinzioni ci si accorse della reversibilità del fenomeno.

Alla luce di quanto vi ho raccontato scommetto che d’ora in poi vi accosterete alle piante che abbelliscono i vostri appartamenti con un velo di sospetto, ma anche con più rispetto, e vi assicuro che sarebbe opportuno visto che, stando a quanto scrive Van Cauwelaert, hanno già escogitato un piano per portarci all’estinzione e che non esiteranno a portare a termine se ci ostiniamo a sottovalutare la loro importanza.

Volete sapere in che modo? Scopritelo leggendo il suo libro.

Maria Musci

bibliotecaria

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