L’era della suscettibilità di Guia Soncini: «È una buona notizia se non scatta la ghigliottina a ogni parola recepita come sbagliata dalla nostra sensibilità»

by Felice Sblendorio

La suscettibilità di questo tempo ci affatica. Ci impegna, galvanizzandoci per intere giornate. È l’animale che ci portiamo dentro, quell’animale di Battiato che si prende tutto. Anche il caffè. Animale esigente, che non ammette distrazioni: ti inchioda alla polemica del giorno (che ha il valore minimo di un giorno, appunto), ai cancelletti digitati da chiunque e da ogni dove, ai processi estetici trasformati in roghi etici, alle idee che non condividiamo e che, in questo tempo folle e iper offeso, tendiamo a bandire, escludere, cancellare.

Le idee non si combattono più, ma si fanno scherno come racconta “L’era della suscettibilità” (Marsilio, 192 pagine, 17 euro), il nuovo libro di Guia Soncini, scrittrice caustica e implacabile voce critica di questa infragilita umanità. In un saggio ricco di aneddoti, citazioni, note e guizzi ironici Soncini racconta la dittatura degli offesi, la morte del contesto, l’identità regolatrice e la destrutturazione di quella gerarchia dei traumi che, un tempo, serviva a distinguere le tragedie dalle farse e le vittime dai suscettibili d’occasione. bonculture ha intervistato Guia Soncini.

L’era della suscettibilità” non è un libro sul politically correct. Dico bene?

Non ho niente contro i libri sul politicamente corretto, alcuni sono capolavori: consiglio a tutti di leggere Robert Hughes, La cultura del piagnisteo, e non solo perché «piagnisteo» è una parola bellissima. Però le conferenze contenute in quel libro hanno quasi trent’anni, e oggi non avrebbe nessun senso discutere della trasformazione in istanza politica delle buone maniere delle nostre nonne: che se parlo di un omosessuale io lo chiami con una terminologia beneducata è regola talmente metabolizzata dalla società da essere la sua infrazione diventata autoironia. È di diversi anni fa la scenetta di Storace che, in risposta a «mi dica qualcosa di destra», rispondeva «a’ frocio». Oggi mi pare che la discussione abbia presupposti diversi. Se Lucio Dalla scrivesse il verso «c’è una checca che fa il tifo», che nel 1979 stava in Anna e Marco senza destare scandalo, lo processeremmo com’è accaduto a Skioffi, cantante a me noto non per la sua opera ma perché aveva scritto una canzone in cui uccideva la fidanzata, epperciò gli opinionisti televisivi decisero di dover valutare la sua fedina morale? Mi si dirà: ma vuoi mettere Dalla e Skioffi – ma credo saremo d’accordo che il punto non può essere la qualità dell’opera, no? «Il lavoro del poeta è nominare l’innominabile», scriveva anni fa un tizio anche lui molto preoccupato per l’andazzo attuale: si chiama Salman Rushdie.

Invece, è un saggio che parte dal fenomeno della cancel culture: un fenomeno che esiste in Italia solo nella forma ipotetica che lei racconta nel capitolo «Pensa oggi». O no?Se quasi nessuno viene cancellato o licenziato per quello che dice o pensa, siamo così ossessionati dalla cancellazione perché ci lasciamo impressionare da cose che non sappiamo tradurre bene? 

Mi fa paurissima quest’obiezione. Qualche sera fa, in televisione, hanno chiesto a una signora che va per gli ottantacinque anni di commentare una sua vecchia foto. Ha detto che non si piaceva per niente in quell’immagine, «sembro una negra». L’indicibile, che abbiamo perlopiù importato senza spirito critico, è così indicibile che anche il mio ripeterlo è considerato inaccettabile: dovrei dire «n-word», e piuttosto taccio per sempre. Comunque: scandalo dei social (che significa: quattro scemi maiuscolano sdegno, giornali timorosi di non essere in pari con la modernità li rilanciano), la signora è costretta a scusarsi. Naturalmente non può dire: guardate che non siamo negli Stati Uniti, guardate che in italiano non è una parola offensiva, guardate che è sciocco farsi colonizzare dal complesso di colpa d’un paese che era schiavista fino all’altroieri e segregazionista fino a ieri, e pensa di risolvere la storia con aggiustamenti semantici. Ma sto divagando. Quel che mi ha fatto davvero paura sono stati alcuni commenti, dopo che la signora si era scusata, che lamentavano fossimo un paese così insensibile che una dice una parola così e «non succede niente». Ma cosa sarebbe dovuto succedere? Vogliamo levarle la pensione per ripicca? Possibile che non capiamo che è una buona notizia, se non scatta la ghigliottina in piazza a ogni parola recepita come sbagliata dalla nostra sensibilità?

Lei parla di feticismo della fragilità e di feticismo delle vittime. Ma cosa succede quando si distrugge una gerarchia dei traumi e le offese si equivalgono?

L’abolizione della gerarchia dei traumi è stato uno dei pilastri, forse il più marcio, del MeToo. Ricordo una lettura pubblica di storie vere di donne vessate, umiliate, molestate. Una di loro era la cliente d’un albergo che il barman di notte chiamava, al telefono della camera, per farle delle profferte seduttive. Ma, tra la cliente d’albergo e il barman, la parte forte è indubbiamente lei, che nella più blanda delle ipotesi stacca il telefono e in quella più ovvia la mattina dopo lo racconta al direttore facendolo licenziare. Invece no, invece è un trauma equiparabile a quello della tizia stuprata, che a sua volta viene messa al pari con una cui il capufficio abbia fissato le tette un secondo di troppo. Tempo fa mi hanno raccontato un’agghiacciante storia di stupro con coltello alla gola, e mentre me la raccontavano pensavo a come potesse sentirsi, una cui è capitata una storia del genere, quando le dicono che il suo trauma non è più grave di quello della stagista che denuncia il governatore di New York perché sì, non ci ha mai provato, ma lei era comunque in ansia temendo che prima o poi ci provasse.

Seguendo lei o Ellis, cresce una generazione «lagnosissima» o «inetta» che si è strutturata nei campus. Qualcuno ha proposto di smantellare le università americane per adottare un modello continentale in cui i ragazzi siano costretti a cercare casa, abitare da soli, non avere guardiani. In Italia non abbiamo guardiani, ma un sistema più diffuso di mammismo. È una delle nostre rovine?

Una delle letture che mi sono rimaste più impresse della mia giovinezza è un articolo in cui Lidia Ravera scriveva che loro – la sua generazione, Ravera è del ’51 – se ne andavano di casa a tutti i costi, si dipingevano i muri da soli, facevano la fame, tutto pur di non stare a casa di mamma e papà. Aveva ragione: io sono del ’72, sono andata a vivere da sola a diciott’anni, e per almeno dieci anni sono stata l’unica mia coetanea che conoscessi a non vivere coi genitori. Ho iniziato a lavorare a 22, e per (almeno) altri dieci ero l’unica che lavorava. Frequentavo privilegiati, certo, ma il privilegiato americano si laurea comunque in tre anni, quello italiano forse in dieci – in antropologia, o analoghe facoltà che gli permettano poi di frignare a vita che la società gli deve il lavoro dei suoi sogni e non glielo dà. Tuttavia, rispetto agli universitari di oggi, eravamo comunque meno impreparati al mondo, non foss’altro perché anche quelli coi genitori più protettivi andavano a scuola da soli alle elementari, e non si filavano i genitori già dalle medie; oggi i miei coetanei – la peggior generazione di genitori di tutti i tempi – ai figli che vanno alle medie allacciano ancora le scarpe, e tornano a casa di corsa per cucinare ai liceali il loro piatto preferito.

Oggi siamo tutti prigionieri dell’alibi dell’identità?

Tra le storie che avevo messo da parte per il libro e poi non ho usato ci sono alcuni tweet della sera della finale di Miss Italia del 2014. Chiara Lalli – che promette da anni un libro su questi temi, con lo specifico taglio dell’identitarismo femminista: potete per favore unirvi a me nell’insistere perché mantenga le promesse? – e io tifavamo per miss Molise, e giocammo alle indignate quando fu esclusa. Per tutta la sera fummo molestate dalle risposte fuori tema e fuori tono d’un molisano offeso in-quanto-molisano, convinto che stessimo irridendo la sua terra. Chiara ha nonni molisani, e così io. Quindi avevamo due scelte. Una era spiegare la barzelletta, ricevere le scuse del tizio, e piegarci alla regola non scritta per cui puoi nominare luoghi, etnie, sessi, e altri identitarismi solo se nella tua biografia ci sono credenziali attinenti: l’epistemologia identitaria, per cui vale quel che sei e non quel che sai. L’altra era non dar retta a uno che non capisce i codici comunicativi privati, e si sente in diritto d’intervenire se due persone che si conoscono li usano in pubblico; non più retta di quanta ne daresti a uno che ti fischia per strada, per usare un esempio in voga in questi giorni. Scegliemmo la seconda opzione – io ho pochi princìpi etici, e uno di essi è: le barzellette non si spiegano – e ancora oggi credo che il tizio ci consideri due discriminatrici del Molise.

Il libro poggia sull’assunto che l’autopercezione abbia sostituito la realtà. In assenza, però, è difficile formare un’identità singola o collettiva. Se si smantella l’identità, cosa rimane?

Cioè se io non mi definisco in-quanto-donna mi si appiattiscono le tette? Se ne è sicuro procedo immediatamente a presentarmi come maschio alfa: con l’estate quell’ingombro sul davanti è particolarmente fastidioso.

Sia, la cantautrice che cita in riferimento alle polemiche sulla decisione di non far recitare nel suo film un’attrice autistica, alla fine si è scusata. Si è consolata con due candidature ai Golden Globe, ma qual è la ricompensa per chi decide di tenere il punto e di non scendere a patti con le mille suscettibilità?

Sono stata ottimista, o incosciente. Ho pensato davvero che una regista esordiente fosse in grado di ribaltare, con la sola forza dei suoi «il film è mio e lo faccio come dico io», il prescrittivismo hollywoodiano. La mia hybris è stata punita dal suo scusarsi nelle settimane in cui il libro era in stampa: quando è uscito, la mia eroina della resistenza all’identitarismo non era più tale. Fottersene è privilegio di pochissimi; specialmente, di pochissimi con una carriera e qualcosa da perdere: in Italia mi viene in mente solo Fiorello, che sbeffeggia gli offesi invece di scusarsi. In America, quei pochi che lo fanno sono un interessante caso di carboneria di successo. Dave Chappelle che osa fare battute sui trans, o Chris Rock che ci dice che i nostri figli non sono speciali, vanno contro al posizionamento socialmente accettabile. Quando, a fine anno, Netflix comunica la classifica degli spettacoli più visti sulla piattaforma, in cima ci sono sempre loro, mai Hannah Gadsby, il cui monologo però a Netflix importa moltissimo avere tra le offerte in-quanto-autistica, in-quanto-lesbica, in quanto manifesto d’un po’ d’identitarismi presentabili. Hannah Gadsby può permettersi di non fare mai ridere, tanto sta lì in quanto quota. Rock e Chappelle sono costretti ad avere molto talento, e solo così possono fare quel che a una regista esordiente ancora non è concesso: fottersene.

Questo tempo così suscettibile ha contagiato anche lei?

L’altra mattina ho capito che niente basta. Non basta aver scritto centonovanta pagine su come offendersi non serva a niente, su come la libertà di parola debba servire a tutelare chi dice scemenze e non chi la pensa come noi, sul ricatto della suscettibilità. Stavo registrando un programma televisivo, e il conduttore mi ha sottoposto il caso d’un giornalista che dà del «bambino ritardato» a qualcuno, e dell’altro giornalista che scrive una dolente cronaca di come quell’epiteto l’abbia ferito in quanto padre di bambino autistico. Avrei dovuto dire: in che modo la povertà lessicale del primo rende più difficile la vita del secondo? Avrei dovuto dire: è troppo facile difendere la libertà d’espressione di chi dice cose sacrosante. Avrei dovuto dire tante cose che avevo scritto, e invece ero solo in imbarazzo. Per quello che insulta con un lessico elementare, per quell’altro che risponde impettito, per me che dovrei prendere le parti di qualcuno. È stato lì che ho capito perché si scrivono saggi: per dire cose che alla tv non avresti la risposta pronta per dire.

Si vergogna mai? Se sì, per cosa? La prego: non mi citi l’aneddoto del Gabibbo.

Mannaggia, stavo proprio per. Anche se non c’entrerebbe granché: l’aneddoto – Antonio Ricci che dice «a Striscia, “Vergogna!” può dirlo solo il Gabibbo che è un pupazzo» – non riguarda la nostra vergogna, ma l’indignazione di chi pretende di decidere quando e di cosa gli altri si debbano vergognare. La vergogna in proprio è materiale preziosissimo, nessuno scrittore avrebbe mai niente da scrivere senza. Quand’avevo più o meno sedici anni, davanti al portone del palazzo in cui vivevo, nel centro di Bologna, si riuniva un gruppo di periferici. Con le mie compagne di classe li sfruculiavamo un po’, era la versione adolescenziale del meccanico e della signora nel video di I’m on fire. Un giorno, non ricordo neanche il perché, mi presero e mi buttarono nel cassonetto che stava dall’altra parte della piazza. Non lo racconto per dire che oggi saremmo finiti in un titolo di prima pagina sul bullismo e allora non importava a nessuno ed era meglio così. Lo racconto perché sono narrativamente molto interessata a quel minuto in cui restai nel cassonetto, illudendomi che, se non fossi uscita in fretta e furia, non gli avrei dato la soddisfazione di capire che mi avevano umiliata. Ero dentro a un cassonetto, e volevo averla vinta sulla mia vergogna. Credo sia stata l’ultima volta (l’ultima volta che non mi sono arresa alla vergogna, e anche l’ultima volta in un cassonetto).

Se potesse decidere di essere sempre percepita “in-quanto”, vorrebbe essere ricordata in-quanto donna, scrittrice, bolognese, «contessa sanguinaria» (Aspesi), «meccanica divina» (Berselli) o cosa?

Tengo Bologna, senza la quale avrei pochissimo da scrivere (cassonetti compresi). Ma sono molto lusingata da Aspesi e da Berselli, quest’ultimo tra l’altro mio più clamoroso caso di suscettibilità. Quando Venerati maestri uscì, ero offesissima che avesse dedicato tre pagine al mio licenziamento dal Foglio. Non perché mi turbasse più di tanto l’esser stata licenziata (lo sono stata da tutti i miei lavori: non me ne vado da un rapporto, di lavoro o d’altro, finché non mi cacci a calci), ma perché se n’era parlato tantissimo, e io ho l’arroganza di voler stare al centro dell’attenzione solo quando lo decido io. Poi sono passati gli anni, sono diventata meno scema, e ora resta solo la goduria di comparire nel libro italiano col più bell’incipit di questo secolo. E quello più immedesimabile, anche: «Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla».

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