Quarta mafia, presente indicativo

by redazione

Mi sono sempre chiesto, perché nella città che ha ospitato la Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, poi seguita dal grande corteo che ha raccolto l’appello di Libera contro ogni forma di criminalità, garrisse sui palazzi di Foggia lo striscione per chiedere verità sulla morte di Giulio Regeni e non ce ne fosse uno uguale per Francesco Marcone.

La risposta potrebbe essere nella inclinazione della città a manifestare per ogni cosa, creando presidi e cortei, convinti che occupare una strada o una piazza significhi prendersela, renderla vivibile secondo standard di qualità, condannate dalle classifiche sulla vivibilità ma che sfuggono puntualmente alle analisi di qualche associazione locale sulla qualità della vita.

Ho cercato risposta anche nei numerosi libri che, come disseminazione letteraria, si sono impadroniti della editoria di genere, quella che è stata per certi versi inaugurata da Pino Arlacchi, ma ha il suo referente in Roberto Saviano, e che in Puglia ha esempi in Alberto Maritati, più recentemente, in Domenico Seccia o nel sopravvalutato libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini o nelle interessanti ricostruzioni di Domenico Mortellaro. A cui si aggiunge il lavoro pubblicato da Antonio Laronga, prefato da don Luigi Ciotti, una omelia letteraria che non toglie niente alla sua missione di lotta alla criminalità organizzata, ma che lo rende più a suo agio quando parla di mafia non quando ne scrive.

Quarta Mafia” di Laronga è un richiamare alla memoria un altro titolo, illuminante all’epoca per gli intrecci descritti tra politica, affari e criminalità. Faccio riferimento a “La quarta Mafia” di Guido Ruotolo, lavoro del 1994, che ha messo alla berlina la fama della Puglia industriosa e politica dei “formiconi”. La differenza nell’articolo determinativo traccia un solco non facilmente colmabile tra le due esperienze editoriali. Perché il libro di Laronga è un’antologia del fenomeno mafioso made in Capitanata. Formidabile nella ricostruzione giudiziaria e nei rapporti tra i diversi clan malavitosi, deludente negli intrecci e nelle ramificazioni mafiose nel tessuto amministrativo e imprenditoriale che hanno, ad esempio, portato allo scioglimento di numerose esperienze di governo cittadino e alla segnalazione di decine di aziende nella black list della Prefettura e che, ma è un convincimento pasoliniano, fanno da sfondo al delitto Marcone, oggi ancora impunito.

Un intreccio che non nasce con l’innocente morte dei fratelli Luciani, che ha dato la stura a tutta una serie di analisi sulle infiltrazioni mafiose nel tessuto produttivo locale, ma prende corpo e sostanza, a mio avviso, nella prima parte degli anni Settanta, quando uno scandalo economico-finanziario, con ramificazioni internazionali e il coinvolgimento di nomi di primo piano, riguardò il mondo politico ed economico della città capoluogo e di parte della Capitanata, svelando una sorta di paralegalità, propedeutica a una stagione di saccheggio del territorio e di saldatura tra interessi politici, imprenditoriali e criminali, troppo spesso rubricati a contesti circoscritti e alla brutale arretratezza dei gruppi di fuoco e che pure erano stati analizzati dall’importante lavoro di Maurizio Fiasco sugli scenari e le strategie della criminalità pugliese.

Si sviluppa in questo contesto una classe politica clientelare, un sistema produttivo semiparassitario, entrambi funzionali alla criminalità, capace di cambiare pelle e “socializzare” le sue attività, un tempo legate al controllo dei pascoli e all’abigeato. Ci aveva provato Giovanni Panunzio ad alzare un muro, a costruire un displuvio tra i livelli “di compromissione, di contiguità e di collusione”. Sappiamo com’è finita e come il suo gesto sia stato confinato a ricordo di una vittima coraggiosa ma fondamentalmente isolata, in una città che, ad esempio, continua a discutere del suo futuro urbanistico in modo raffazzonato, alimentando consorterie e compravendite che sono forse costate la vita anche a Francesco Marcone. Ma poi, e ritorna la domanda iniziale, perché Panunzio ha i suoi colpevoli e Marcone aspetta ancora? Forse perché il primo ha sfidato la criminalità estorsiva, il secondo quella dei colletti bianchi?

Ecco, mi piacerebbe leggere di un libro che raccontasse non della ferocia delle bande criminali e dei loro intrecci familiari/patriarcali, ma che permettesse di svelare il nesso tra politica, imprenditorialità e criminalità che è servita a coprire la vera faccia del mosaico, dove ogni tassello non è mai isolato o privo di collegamenti con gli altri.

In questo senso quell’articolo determinativo sul libro di Ruotolo resta fondamentale e una distanza abissale nella stagione letteraria dedicata alla Quarta Mafia.

Maurizio Tardio

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