“Liberiamo tu”, il primo romanzo del filosofo Emilio Mazza sull’esperienza del contagio

by redazione

Un giorno di marzo del 2020 un uomo si sveglia e si ritrova nel mezzo degli anni Settanta. “Liberiamo tu” – pubblicato da Milieu Edizioni – è il primo romanzo del filosofo Emilio Mazza che di volto coperto in volto coperto, da una maschera all’altra, racconta l’esperienza della convivenza con il contagio e insieme ripercorre la storia di una vita accorgendosi che tutto è legato con un filo rosso: dalla vecchiaia all’infanzia passando per l’adolescenza e gli anni Settanta, in ogni stagione ritrova lo stesso vento di rabbia.

Mazza riflette sulle analogie della storia personale e collettiva, ma anche sulla letteratura e il linguaggio, sulla rivoluzione e sulle relazioni. Con una narrazione ritmata e musicale l’autore ci conduce in una resa dei conti con la Storia. Racconta di un desiderio di liberazione che parte da lontano, dal “Liberiamo tutti” dei giochi infantili, e che arriva fino alle scritte sui muri e agli striscioni appesi ai balconi.

bonculture anticipa un estratto del libro.

Su il fazzoletto, compagni! – Quell’ordine secco soffiava leggero come un vento di maggio.

Su il fazzoletto. – Era brusco e festoso, Ernesto; e questa era la cosa che importava di più. Stavamo per iniziare a spaccare, prima di fare la spesa. Io lo tenevo allentato, con il nodo a sinistra. Presi la punta tra pollice e indice e la feci girare veloce verso il centro dei miei pantaloni, che in quel momento era tutto il mio mondo. Poi con entrambe le mani lo tirai sopra il naso. Iniziammo a cantare. – Noi gridiamo in coro, evviva, hip, urrà, cìn cìn! Topolìn, Topolìn, viva Topolìn! – Nel fazzoletto la voce risuona ovattata e gli sputi rimangono lì. Quel fiato represso a qualcuno appannava l’occhiale non sempre da sole. C’era chi portava la sciarpa e sudava, e chi molto più chic indossava un foulard. I più truci calavano il passamontagna (a tre buchi ne giravano pochi). Gli eleganti feroci issavano «la balaclava», sapor di Crimea, che portavano bassa come uno scalda-e-nascondi francese. Per quelli più addentro, con omaggio alla marca, era «l’Ermenegildo, e chi non capiva era escluso, come quando dicevano «il Ferro» o «la Berta, alludendo alla mala che la usava per farci «la Rapa». I più fricchettoni avevano il saffi e spesso sapeva di cilum, oppure patchouli e tabacco bruciato. La kefiah non era poi molto diffusa, nonostante l’appoggio alla lotta del popolo armato di Palestina.

Su il fazzoletto! – Di colpo eravamo un festone in mezzo all’asfalto, bandierine arrivate dal Tibet per la preghiera che precede l’assalto. Un filare di teste senza più mento né bocca né naso, casematte offensive a colori. Delle casematte i nostri discorsi si sforzavano di mettere in mostra la grande apertura mentale e quella materia flessibile che cementa l’intesa del gruppo. Le pupille scorrevano per la feritoia senza fare rumore, tra il bordo del pezzo di stoffa e l’arcata del sopracciglio, in qualche caso la frangia o il berretto: da destra a sinistra e ritorno, con lieve rotazione del capo. Io cercavo lo sguardo che confermasse l’azione. Fuorilegge prima della rapina, eravamo eccitati, con cinturone e cappello ma senza cavallo. Confederati sudisti sconfitti, traditi e sbandati per forza, più mucchio selvaggio che magnifici sette per luogo comune, ma sempre comparse nel film del secolo breve arrivato alla fine. Desperados ai blocchi in attesa del colpo. Una fila di occhi. In attesa. Aggressivi. Arrossati. Infossati. Superbi. Arroganti incoscienti. Assenti in tensione. Così coraggiosi da sembrare perfino spauriti. Alla testa del femore le mani stringevano i sassi, le spranghe, i tondini, le chiavi e i bastoni.

Presi in spalla la borsa da postino del Nord per gente che vive in città, strizzai le tasche alla giacca quel tanto che basta per dirsi che il cellulare e le chiavi ci sono, palpai gli occhiali attraverso il taschino mentre le sigarette appoggiandosi al petto miravano al cuore, almeno così mi diceva il cardiochirurgo. Dal momento che ogni cosa sembrava al suo posto puntai dritto alla porta.

La mascherina! – urlò Angela. Non c’era spavento né allarme in quell’urlo. La denuncia dell’irrimediabile si era fatta giorno per giorno promemoria rituale, un’esortazione rassegnata e paziente che illustra il passaggio dal respiratore alla multa. Ce lo ricordavamo a vicenda. Da tempo. Quasi ogni volta che uno, di solito io, raggiungeva la porta per uscire di casa, chi restava gridava o forse nemmeno: – La mascherina! – Insieme bastava guardarsi negli occhi: se si vedeva la bocca, si doveva rientrare. In quei giorni per fare la spesa sembrava servisse soltanto la maschera, perché dei guanti avevano detto che forse facevano male. In effetti infilare le dita in quei sacchetti compressi che di solito servono per frutta e verdura non era un’operazione spedita, e la pelle ne usciva avvilita, la mano bagnata. L’ordinanza ordinava di fare la spesa da soli non più di una volta per settimana. Io avevo deciso di prenderla rossa, rossa e di stoffa, e di un bel rosso fuoco; mi ricordava il titolo lungo di un breve racconto sul principe che voleva sfuggire al contagio e finiva per portarselo in casa festeggiando la fine del suo isolamento. Ma ne tenevo sempre una in tasca non so dire di cosa; era chirurgica e azzurra e si diceva che avesse tre veli. La tenevo piegata a metà. Non la trovavo elegante. Faceva molto ospedale e aveva qualcosa di triste. Ma per la spesa poteva bastare. In strada la portavano tutti, in un modo o nell’altro, come nei corridoi che conducono al bar di un immenso reparto infettivi.

Fare la spesa mi rendeva nervoso. Ma io, nervoso, lo ero lo stesso e di mio, anche senza la spesa da fare, e fare la spesa mi rendeva nervoso. Non era soltanto paura, paura del virus intendo, era tutto il contorno. Il luogo. La lista. La gente. La fretta. Era tutto. Ci andavo di solito a fine mattina, per non passare il resto del giorno a pensarci e perché da sveglio non fosse il mio primo pensiero. Iniziavo comunque a pensarci la notte quando la preoccupazione decolla, ripetendo il percorso e la lista con la testa appoggiata al cuscino. Avrei continuato il pomeriggio seguente. Ma in un’altra maniera. L’avrei fatto da esausto, sfinito sul letto. Sarebbe stato il pensiero del dopo che rivede l’azione compiuta con lo stesso timore di prima. Era il mio servizio di leva in tempo di guerra, il supermercato. Il mio Vietnam senza Canada dove scappare. Mi sentivo un primitivo dopo la scoperta del fuoco (in realtà primitivo lo ero) che esce a procurarsi del cibo per la famiglia, anche se in casa non c’eravamo che Angela e io. Affrontavo pericoli in serie, uomini pronti a dare battaglia, tutti fuori di casa per la stessa ragione. Tutti alla caccia del cibo.

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