Macello di Maurizio Fiorino e la “restanza”: il Sud e i padri sono il nostro burrone e noi siamo funamboli

by Giammarco Di Biase

Restare. Sempre. E’ una questione di forze che ti spingono o ti attraggano. Restare è questo verbo e non può che significare “non voglio, non posso andarmene”, in maniera egualitaria, volere potere.

Ancora meglio è se da adesso il concetto di restare lo rendiamo elegiaco, più poetico, affine ad una condizione di cuore e di vita e di passioni, “restanza”. E’ da qui che si parte, “rimanendoci”, nel quarto libro di Maurizio Fiorino edito da Edizione E/o, “Macello”.

Questa parola, come se Sergio Leone non potesse permettersi di abbandonare il suo West con l’arrivo della modernità, l’industria, i treni.

Restanza, come se Kent Haruf abbandonasse il suo luogo narrativo, quell’America potere scenografico anche di quel Thomas Savage che parlava anch’egli di quel “dover restare a tutti i costi” fitto di drammi, senza scrivere di una pistola e senza spostarsi all’azione di Ford, ma sporcandosi le mani con i rapporti affettivi e di paese nella sua opera bellissima “Il potere del cane”.

La letteratura è prima di tutto un luogo, la parola, e la parola è prima di tutto territorio, raccontare un mondo. “Restanza” allora diventa più chiaro, perché è un termine profondo ma piena di mancanze: significa restare apostrofandosi alla malinconia, al dolore.

E per parlare di territorio, di parola, di comunicazione, quindi, “di parlarsi” e di farsi capire c’è bisogno di Padri.

Macello” di Maurizio Fiorino è giocato su queste due profondità, l’appartenenza di un determinato destino nei confronti di un luogo e l’appartenenza di un determinato destino nei confronti di un “genitore”.

Genitore e luogo, poi qui, come mai nella letteratura contemporanea italiana sono fatti di roccia, stesso materiale, stesse scelte, stessa durezza. Niente scalfisce le radici, di sangue o meno: quelle sulfuree della Terra che sono comunque seme, coacervo di dna.

Ho sempre pensato che mio padre avesse un’altra vita, perché da qualche parte, anche se sei la persona più triste del mondo, l’idea di felicità, fosse solo per un attimo, deve pure incuriosirti.”

Macello”, quarta opera di Maurizio Fiorino dopo “Amodio”, “Fondo Gesù” e “Ora che sono nato”, racconta la storia di Biagio figlio unico e orfano di madre, in un Sud desolato e arcaico, cresciuto dal padre Bruno, macellaio del paese, uomo prigioniero dei propri silenzi.

Intorno al candelabro della storia si raccolgono, come in una cerimonia luttuosa, Vittorio il vecchio “vizioso” del paese che paga i ragazzini in cambio di rapporti squallidi, Elsa l’unica donna che sembra in grado di amare suo padre, Lia la vicina di casa che usa rituali magici fino a diventarne ossessionata e Sara una vecchia compagna delle scuole elementari che il protagonista finirà per sposare e che proverà a rendere felice.

L’unico che reggerà una fiaccola che potrà scambiare di poli questa liturgia, da funerea a vittoriosa e di illusoria speranza sarà Alceo, con la passione della pittura e anche egli come Biagio vittima di un fallimento sportivo, la boxe tanto agognata per fuggire da quella decadenza e da quel mondo chiuso.

«La vedi casa nostra, lassù?» mi domandò una mattina mio padre. «Guardala, è scomparsa. Un giorno anche io me ne andrò senza dire niente a nessuno»

Fin dai tempi di “Amodio” (storia di ritorno a Crotone, città natale dello scrittore, e di un amore ucciso dall’ndrangheta,) e “Fondo Gesù” Maurizio Fiorino racconta con complessità la struggente forza con cui ci attraggono i nostri luoghi. Una storia “di chi fugge e di chi resta”, per citare “presa” narrativa e parole cariche di forza di Elena Ferrante, e chi resta e chi se ne va comunque non rimane sempre lo stesso individuo.

Il percorso di Maurizio Fiorino è un percorso letterario e vitale oculato. Narrativo e vitale, insieme, perché ci sembra di conoscerlo radicalmente anche come uomo di 37 anni e non solo come scrittore dei suoi libri, persona e artista, artista e persona. Succede, sia chiaro, perché i suoi libri sono un continuum poetico, libri di un narratore coerente e che mette in luce anche l’uomo che c’è dietro la propria arte, una successione che va “studiata” come tale: un libro è imprescindibile da un altro, è importante capire il sentiero di cui si nutre un’adolescenza, per poi scapparne (“Fondo Gesu’”), ritornarci (“Amodio”), restare ecco finalmente in Calabria, tra Crotone e i paesini limitrofi intorno (“Macello”).

Non c’è l’uomo Maurizio Fiorino, non c’è l’artista Maurizio Fiorino, senza questo eterno filo rosso, che si è portato anche a Milano o in America, cioè la sua Origine che in tutti i suoi libri è slanciata o refrattaria, dolente o capace di essere perdonata, ripiegata su menti sbandate, balorde o possibile di resa per ricostruire una possibile felicità, mendicante di violenza, o semplicemente riempita di facce “pasoliniane” pronte per il riscatto: la Calabria.

Ed è per questo che Maurizio Fiorino fin da subito ha abbandonato le carenze del suo popolo, se ne è liberato, fotografo professionista, espatriato, personalità e cuore omosessuale di una generazione che non ha dato un nome alla propria identità, che non l’ha dichiarata in fatto di termine e di rispetto e di comprensione, nascosta nel fallimento di non essere “veri uomini”. Dove i mafiosi uccidono per questa “perversione”, dove l’amore è un malocchio da estirpare tra Sud e Magia.

La storia di Biagio è una storia senza tempo, in un non-luogo incivile e ingarbugliato che si ricorda con fallimento e infelicità mille miglia lontani ma allo stesso tempo luogo vero e proprio di prigioni in cui non si può “smettere di restare”. Una “Ungenach” bernhardiana, luogo d’Origine nefasto e paterno: dannazione è la Calabria di Fiorino.

Thomas Bernhard in una delle sue ultime opere pubblicata da Adelphi, resta nella sua “Austria” perché frutto dei suoi dilemmi, casa d’infanzia, mondo piccolo di fantasmi, coscienza ferma europea. Ungenagh «significa pazzia», «carcere», «inferno del cattivo gusto». La Calabria per Fiorino è come direbbe sempre lo scrittore geniale austriaco “fosco compendio di una realtà fisica e mentale poiché è la rovina il punto verso cui tutto converge”, dove il luogo “ti insegue” e evapora anche fuggendo da esso per restare nell’aria come un germe, un virus, una nuvola nera sopra i protagonisti, una melodia di serena capace di distruggere futuro e amplesso amoroso, identificazione e modifica.

Macello” di Maurizio Fiorino è un’opera difficile, per niente conciliatoria, un “trattato bellocchiano” che restituisce proprio le idee, le manie e le fragilità dei protagonisti del cineasta di Gubbio (che ha fatto la storia del cinema italiano) senza catarsi ma pieni di tragedia, del “potere” di cui siamo vittime nel “restare” pur consapevoli, nient’altro che Restare.

Siamo partoriti dall’Origine e ovunque essa si trovi saremo sempre soggiogati dalla nostra natura come soggetti- vittime che si muovono dentro essa e non resta che rimanere con “i pugni in tasca”.

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