S’aggrinza un astro di Giammarco Di Biase e la poesia che innalza. «Gli infiniti eternizzano la parola»

by Antonella Soccio

Non si può stare

per tutta la vita

dentro un altro.

Con ogni speranza noi

creiamo questo altare.

Lo si fa biologicamente,

credendo in più mondi

annulliamo l’amore.

Essere cani solo tra fauci,

bestie che hanno cuore

nelle zampe e Dio uno spavento:

il suo paradiso qui nei muscoli spenti.

Ma in quale crepa crediamo?

Voglio rimanere

nel cuore di un altro,

e questo bacio

che mi ripeta sempre.

Alla sua prima silloge poetica, “S’aggrinza un astro per le Edizioni Ensemble, con la prefazione di Elisa Ruotolo e la nota a margine di Roberto Masi, Giammarco Di Biase giovane giornalista e critico letterario foggiano, apre le sue ferite esistenziali, i suoi strappi, le sue crepe con versi puliti, studiati, ricchi di lavorio intellettuale ed umano.

Di Biase ama le ridondanze colte, le figure retoriche più musicali, come i chiasmi e le ripetizioni, le allitterazioni del cuore, gli enjambements più arditi.

Il suo mondo “di ferraglia cometico” si esplica in sentimenti umidi e liquidi. Per dirsi addio sotto la pioggia, amarsi al mare, nutrirsi di latte, avere guance sul temporale.

Il tema del lutto paterno si sostanzia in liriche elevatissime, che sfiorano il misticismo e l’elemento cristico, come scrive Elisa Ruotolo.

«L’autore referta l’amore, il dolore, la sacralità di un’assenza paterna (che sconfina nella presenza – assenza divina), fino a confrontarsi con la consapevolezza del nostro essere brevi, incrinati rispetto all’idea di assoluto», evidenzia l’amica scrittrice.

Insieme alla sensibiità sacrale si rintraccia però anche la leggerezza dell’estate, dei primi amori, dei primi baci, dei bagliori delle notti sulla spiaggia.

È già maturo Giammarco Di Biase, non è mai autoreferenziale o ermetico, nonostante l’infinita cultura che lo contraddistingue e i tanti autori letti e assimilati, come noi di bonculture sappiamo bene avendolo avuto come nostra firma culturale e recensore prezioso. Di Biase accompagna il lettore in un universo di condivisione. Nei sogni/ due finali si toccano/ sono i sogni degli altri,/i nostri, i miei”.

Lo abbiamo intervistato.

In estate si poteva

dire tutto. Le parole

bagnate nel sesso

erano metafora degli arti.

Ciechi correvano

i crampi al canale

scintillio di ogni medusa,

quando nudi ci saziavamo

di nulla

nelle mani della notte.

Giammarco, quanto è importante per te il mare? Cosa ti ispira? Qual è la profondità del mare per dirla alla Lucio Dalla che ti agita?

Per me è molto importante il folklore dei luoghi che ho vissuto nella mia infanzia. Ci sono delle poesie in cui lo scenario metaforico di cui ovviamente non parlo è Marina di Lesina. Sono cresciuto lì, lì ho avuto le mie prime esperienze, i miei primi amici. Avevo una doppia vita come ce l’hanno tutti i ragazzi adolescenti: la vita invernale e quella del mare, durante la quale mi liberavo completamente da tutti i recessi, dalle convenzioni. Lì mi sentivo davvero libero. Il mare è importante per me perché è un luogo eterno, onnicomprensivo di sentimenti che restano universali. La malinconia, la felicità o la malinconia di quando capisci che certe felicità non possono più tornare. L’odore, il respiro, lo scontro con alcuni desideri che si volevano e come cambiano quei desideri rispetto al presente. Quell’odore di pelle, il toccarsi con l’asciugamano. Quelle pulsioni cambiano. Cambia tutto con la maturità. Il mare è lì, come ricordo. Come memoria. Il mare non è un mare semplice, ma è proprio Marina di Lesina, che è parte della mia memoria.

Parli di cantautorato citando Dalla, quando ho scritto molte poesie e in particolare Cuore di Pineto, una poesia che poi non più inserito nella silloge, ascoltavo Rimmel di De Gregori. Il cantautorato mi fa pensare alle corse in acqua, ai bagni di notte. Per me il mare è fortemente identificativo, per me il mare non è il mare universale, che tutti hanno toccato, ma è proprio quel mare lì, Marina di Lesina, che è sopratutto una radice e una terra. C’è l’etnologia di una cultura, quel posto è anche profondamente San Severo, due città che si incontrano lì. Io ero quasi un estraneo in mezzo a quei corpi e a quelle persone, ci sono dei paesi intorno a noi in provincia di Foggia che sono intrinsecamente identificativi e pregni di una cultura e di un sapore di una cultura. E sicuramente a Marina di Lesina i luoghi sono viscere di San Severo.

Intatto resterà

il gioco della natività

con il tintinnare negli anni

di un’enorme crepa.

Il Cristo bambino

già rotto nella cura.

Nelle tue poesie è molto presente il Corpo di Cristo, che è Corpo del Padre. Quanto la crepa del lutto anima i tuoi versi? Il sacro cura?

L’idea del sacro del cura, il sacro c’è anche se è solo una tua idea. Lo si può inventare, lo si può restituire a se stessi in ogni momento, più che un Dio vero e un Cristo vero, ci sono le reminiscenze di quelle icone, di quei personaggi, di quelle santità, di quelle figure. Ricrearle è già sacro. Sono molto legato agli strumenti dei vangeli, da cui passa la Parola, il Verbo. Sono molto più legato a quello che ci è concesso sulla terra per leggere Dio che Dio stesso. Dio è tutto quello che vogliamo, ci auguriamo, ci autorappresentiamo. Il sacro è quello che noi ci procuriamo. Pensare a qualcosa di sacro e idealizzarlo già per sé è un flusso, un canale. Il canale per arrivare al sacro è già sacro, già ci innalza. A me importa innalzarci in qualche modo, anche in una visione laica, non è prettamente sacro ciò che è sacro, ma è sacro ciò che può esser detto sacro. Il territorio, le case, i padri come profeti, mi interessano non tanto i profeti ma i profeti come padre, le coscienze sotto mentite spoglie. Le icone servono a rimediare qualcosa di profondamente umano, provengono dall’umano, le costruiamo noi per la nostra preghiera non per la preghiera di una altura, di una altezza. La preghiera non proviene da Dio, ma da noi. A me interessa il mezzo, la continua tensione. Non so se c’è una vera religione nelle mie poesie, perché sono profondamente agnostico e laico nella mia visione. L’importante è innalzarsi, avere quel senso di sacro.

Nelle tue poesie è molto evidente la mole del tuo studio letterario e il ricorso importante al labor limae. Perché scegli l’uso degli infiniti per definirti?

Quando si scrive il verso libero non ci si può permettere di scrivere come si vuole. Non tutti possono essere poeti, non tutti possono essere scrittori perché bisogna prendere una via. Da una parte c’è il talento, ma dall’altra c’è molto studio. Nel momento in cui scegli i verbi, l’accostamento delle parole e scegli anche come dissacrarle e i contenuti fuori posto, devi aver studiato le basi, le regole. Prima devi essere un profondo credente di quei verbi, di quelle eccezioni e di quel sapere, devi essere disciplinato e poi puoi rompere con la disciplina. Il mio libro nasce anche dal voler rompere con la disciplina. Si sente che sotto c’è una struttura, perché per scrivere poesia libera e sgrammaticata nel numero dei versi e nel conteggio della sillabazione devi conoscere cosa c’è sotto nel rompere il lavorio.

Prima mi chiedevi della crepa del lutto, che sembra trascendentale e invece crea questa apertura. Il lutto mi permette di aprirmi molto all’universale e agli altri e l’infinito mi fa conversare profondamente con gli altri e soprattutto è il luogo della poesia ed il modo per esprimere ancor meglio la catarsi e il verbo della poesia. Per me è molto importante usare gli infiniti per eternizzare la parola.

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