“Tutti i miei errori” di Lehane: velocità, densità, tensione. E un impatto da sceneggiatura

by Francesco Berlingieri

Dennis Lehane
Tutti i miei errori
(Longanesi, 366 pagine, 18,60 euro)

Era lì da un po’, come in attesa. Sospeso tra la promessa e l’inflazione. Perché ambientare una storia di Cosa Nostra negli anni Quaranta di Tampa è un rischio. Per definizione. La nostra immaginazione al riguardo è quasi satura. È un po’ come se, a colpi di letture e di pellicole, ci fossimo stati anche noi in quelle strade – di Manhattan, di Boston, di Chicago, di Los Angeles – a stretto contatto con quei cognomi italiani – Luciano, Trafficante, Bartolo – impegnati a far soldi e a consumare atroci vendette nell’America a cavallo tra il Proibizionismo e la Seconda Guerra Mondiale.

L’ultimo era stato – nientepopodimeno che – James Ellroy, col suo Perfidia. E poi The Irishman, libro e film di Scorsese. Poi è entrato Andrea, che studia cinematografia, ha guardato la copertina di Tutti i miei errori e ha esclamato: “Ah, Lehane. Questo è l’autore di Mystic River, di Shutter Island, di Gone baby gone, di The wire”. A quel punto, il dado era tratto. Nelle mie mani è durato Pasqua e Pasquetta. Di quarantena, certo, senza distrazioni. Ma non sempre capita di cominciare e finire – anche senza distrazioni – un libro in due tempi brevi. Capita quando i libri sono scritti così. In Tutti i miei errori ci sono tutte le caratteristiche che apprezzo ed ammiro nella letteratura pop statunitense: velocità, densità, tensione. Un impatto cinematografico, da sceneggiatura. Un protagonista, la sua famiglia, i suoi drammi. E una minaccia di morte sulla sua testa. Ma chi potrebbe attentare alla vita di Joe Coughlin? Joe è l’uomo d’oro irlandese della mafia italo-americana: ha affari da Cuba alla East Coast e tutto quello che tocca si tramuta in dollari. Joe rende ricchi i suoi amici, i suoi compari, il suo Clan.

Era un boss e non lo è più. Ora si “limita” a consigliare. E tutti i boss della Commissione gli portano rispetto. Eppure, nella Florida sospesa tra la calura opprimente e l’apprensione per le notizie che giungono dall’Europa straziata dalla guerra, la sua vita è improvvisamente in pericolo. E Joe Coughlin dovrà risalire all’origine di quella minaccia. E battersi coi suoi fantasmi. Attraversando a ritroso un’esistenza fatta di fedeltà e dolore con la cupa leggerezza che è tratto distintivo di certi narratori americani. Joe è Frankie Machine. E, come con l’anti-eroe di Winslow, il lettore finisce con l’immedesimarsi e bramare informazioni sul suo conto: di più, sempre di più, fino al punto di rottura. In sintesi, non è facile farsi appassionare ancora da una storia raccontata mille volte. Ma – ha ragione Andrea – uno non scrive Mystic River e Shutter Island per caso.



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