Scartare gli italiani (vol.2)

by Francesco Berlingieri

Parte integrante del mio lavoro è leggere trame. Scorrere i cataloghi online, guardare le copertine, confrontare i prezzi. E poi aprire schede su schede e leggere trame. Ultimamente mi è capitata in libreria la copia di un libro di poesie. Mi è sembrato ben fatto. Ho indagato sulla casa editrice e ho passato un’ora a leggere le schede della sua narrativa. Un’ora con un paio di bicchieri di bianco e il blocco-note aperto per prendere appunti.
E, come per Barney, è successo ancora.
Me ne sono accorto alla fine e ho cercato di darmi una spiegazione: il pregiudizio si è forse consolidato? Si è cronicizzato? Perché non ho selezionato neppure un autore italiano?

Ripeto: non è la prima volta. Sono anni, anzi, che mi imbatto in case editrici indipendenti (e non) che – eseguendo alla lettera quella che è la missione recondita della letteratura – propongono autori e storie distanti ed impensabili e, di fatto, divaricano a viva forza l’assiderata curiosità di noialtri, appiattiti sui soliti quattro guitti ad equo canone di Fabio Fazio, Repubblica e Corrado Augias.

Gli autori polacchi e ucraini, le storie russe e tedesco-orientali della Keller, l’alta narrativa sul baseball e sul football statunitense della 66thand2nd, i giallisti tedeschi della Emons, i sudamericani della SUR, gli ex-jugoslavi e la letteratura di confine di Bottega errante, gli ungheresi di Anfora, i messicani che aprono spaghetterie nel deserto di Del Vecchio.

Poi, niente. C’è questo Tizio che ha studiato a Bologna, che è stato fuoricorso per una decina d’anni, che non sa cosa fare del futuro e nel frattempo si sfonda di canne, che ha fatto il rider, il fattorino, il lavapiatti; che è stato a Londra o a Berlino a fare il rider, il fattorino, il lavapiatti; che gli amici si sono sposati e sistemati e lui è ancora Pieraccioni, in un baraccio, a guardare le gonne svolazzanti delle matricole; che i genitori all’età sua avevano tre figli e quindici anni di contributi; che la politica l’ha tradito, il sindacato l’ha tradito, Dio l’ha tradito, la fidanzata storica se n’è andata con uno coi soldi (o con uno che, semplicemente, non è un barbone); e, per ammortizzare i tradimenti, legge Bukowski e cita Baudelaire. E c’ha trentasei anni. Trentasei anni di vagabondaggio e nullafacenza. Finché – colpo di scena – entra a far parte di una gang di rapinatori che deve assaltare la filiale del Credito Italiano; o di una gang di trafficanti; o di una gang di filosofi di strada che vincono la Ruota della fortuna.
Si è consolidato il mio pregiudizio nei confronti degli autori italiani? Si è cronicizzato?

È stigma di incipiente esterofilia dire che una come Anna Burns è riuscita nell’impresa di applicare il piano sequenza ad un racconto in apnea, in soggettiva, del dramma comunitario dei Troubles nordirlandesi? È esterofilia dire che raramente mi è capitato di leggere qualcosa di più privato e di più pubblico de “Il ritorno degli dei” di Nick Laird? È esterofilia giudicare come ciclopico lo sforzo di fare il romanzo di formazione di un branco di ragazzini nella Lipsia del crollo del Muro, come quello compiuto da Clemens Meyer, che ha un anno meno di me? È stupida, sciocca, superata esterofilia affermare che Mullen, Norek, Evison, menano come da queste parti non mena nessuno? Ed è un errore di prospettiva attendersi da un libro che ti meni? Ti sconvolga, di instradi, di colpisca?
Ti racconti un paese?

Qualche giorno fa erano quarant’anni da Ustica. Il 30 giugno, sessanta dalla rivolta di Genova. Il 7 luglio, sessanta dai morti di Reggio Emilia. Il 2 agosto saranno quaranta dalla stazione di Bologna. L’anno prossimo saranno venti dall’omicidio di Carlo Giuliani.

E invece niente: c’è questo tizio, precario, con in tasca una laurea al Dams, che vive in strada di spiccioli dopo esser stato tagliato fuori da una crudele multinazionale e che campa regalando sorrisi, abbracci e poesie ai passanti. Nell’Ordine numero 2 all’Armata delle Arti, Majakovskij si rivolgeva ai suoi contemporanei: “Prima che vi scaccino con il calcio dei fucili: smettetela!”.
Ecco, smettetela. Perché è imbarazzante prima ancora che insopportabile. E fare lo scrittore non è un precetto evangelico. Fate altro. Perché, del resto, ambire ad infoltire una letteratura nazionale avvitata su sé stessa, autocelebrativa in alto e al limite dell’autoplagio (o della fotocopiatrice) in basso, incapace di superare l’immanenza, di farsi epica, di raccontare il dramma collettivo in luogo delle scempiaggini atomizzate, bastioni dell’individuo e della sua fottuta sacralità? Perché estendere il parterre immaginario di avvocati, preti e commissari alle prese con delitti da strapaese e crisi generazionali? O innestare una casta di reali magistrati e sbirri e questori e prefetti a farsi pubblicare gialli invece di lavorare? E, per inerzia, finire tra le fila di una generazione di giovani scrittori senza il minimo respiro pubblico: per loro, sapete, non c’è trattativa Stato-mafia, non ci sono NAR o NAP, non c’è la strage di Ramstein né quella di Duisburg, c’è solo la caricatura di uno scompenso generazionale che dai libri è decollata per sfornare fiction e film girati da figli di attori e registi famosi, o che da questi è caduta nei libri.

Poche eccezioni e – da anni – sempre le stesse. E una rabbia incipiente dinanzi ai Carofiglio che parlano come se fossero Ellroy. O ai Signor Nessuno che s’atteggiano a Foster Wallace o a McEwan. Ecco perché in libreria, quando mi chiedono dove sia la Gamberale, o Gramellini, o De Silva, indico un luogo a caso verso il centro: di là, penso che siano di là. Se vi affrettate riuscite a raggiungerli. Ah, e se per strada doveste imbattervi in qualcuno che vi chiede venti centesimi per una poesiola scritta sullo Scottex o su un madonnaro, nessuna paura: quasi certamente sarà il protagonista dell’opera prima di qualche emergente.

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