Ritchie, il filosofo vittoriano diviso tra Hegel e Darwin. Conversazione con Antonio Lombardi

by Fabrizio Simone

La pubblicazione de L’origine della specie di Charles Darwin, nel 1859, sconvolse il mondo vittoriano. Negli stessi anni, ad Oxford, la filosofia hegeliana cominciò ad essere studiata ed apprezzata grazie a Thomas Hill Green, il quale reagì al darwinismo imperante divulgando la dottrina del filosofo tedesco. Un suo allievo, David George Ritchie, tentò una sintesi tra l’idealismo e il nuovo paradigma evoluzionistico, conscio della rilevanza di entrambe le prospettive.

Volendo riscoprire la figura e l’opera di Ritchie, Bonculture ha intervistato Antonio Lombardi, dottore di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia, autore della monografia David George Ritchie. Un darwinista hegeliano nell’Inghilterra vittoriana (Edizioni di pagina) e cultore della materia in storia della filosofia presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.

Qual è l’importanza di Ritchie all’interno del panorama vittoriano?

David George Ritchie è un filosofo scozzese non molto conosciuto, ma è importante perché grazie al suo contributo, durante l’età vittoriana, due correnti tra loro opposte – l’idealismo tedesco, recepito in Inghilterra nella seconda metà dell’800, e la teoria dell’evoluzione di Darwin – sono riuscite ad incontrarsi. In realtà già il maestro di Ritchie, Thomas Hill Green, probabilmente il più importante filosofo idealista dell’Inghilterra vittoriana, è stato il primo a dire che queste due visioni del mondo – la prima proveniente dalla Germania e la seconda autoctona – non sono opposte, come inizialmente tutti avevano creduto. Il darwinismo proponeva una sorta di naturalismo integrale, sostenendo l’idea degli individui in lotta per la sopravvivenza, ma ciò comportò anche la crisi del credo religioso; la posizione di matrice kantiana ed hegeliana, invece, considerava l’uomo come una creatura dotata di ragione e di una legge morale. Ritchie, quindi, recuperando anche la lezione del suo maestro, dice che l’evoluzione è un fatto innegabile ma nulla vieta che l’evoluzione conduca a forme di pensiero che vadano al di là della mera e brutale lotta naturale. Perciò, nell’Inghilterra vittoriana, riuscì a far convivere le verità dell’evoluzionismo e l’etica solidaristica, oltre che le verità della religione.

In cosa consiste, concretamente, il tentativo di sintesi compiuto da Ritchie?

Entrambe le visioni di cui parliamo – evoluzionismo ed idealismo – condividono un’idea dinamica e non statica della realtà. Prima dell’idealismo, la natura era considerata come un regno di forme immutabili. Con l’idealismo, invece, tutta la realtà è soggetta ad un divenire radicale. Questo non significa, però, parlare di relativismo, come farà erroneamente il tardo Ottocento (anche il Novecento condividerà questa lettura inesatta). Mentre i darwiniani, indirizzandosi verso il relativismo, finivano per considerare anche l’altruismo nel prossimo, ad esempio, come una temporanea fissazione di un istinto di sopravvivenza della specie. Ritchie, allora, tenta di tenere insieme due visioni che condividono un presupposto “storicistico” – secondo questa prospettiva la realtà non sarà mai fissa per sempre, comprese le specie – perciò la sintesi serve a non dire che l’evoluzionismo ci conduca ad esiti, dal punto di vista etico e politico, per esempio, potenzialmente scettico-relativistici.

In cosa si concretizza il socialismo liberale propugnato da Ritchie?

La Gloriosa rivoluzione del 1689 sancì l’autonomia dei poteri rispetto al potere esecutivo ed assoluto del re, secondo la prospettiva liberalista (ogni singolo nei confronti del potere centrale, all’epoca rappresentato dal sovrano, ha una sua sfera di diritto che non deve essere violata). Nel’700, in Inghilterra, come denuncia Ritchie, questo assunto sacrosanto si era trasformato nell’idea per cui lo stato non dovesse fare proprio più niente, di qui la mano invisibile di Smith e il mercantilismo. Con l’800, però, Darwin nota che l’evoluzionismo conferma la verità del liberalismo: l’uomo è un individuo che fa i suoi affari ed è costretto a combattere per la sua esistenza, ma il migliore, a livello economico-sociale, emergerà sempre. In questo modo le classi meno abbienti sono destinate a vivere miseramente. I liberalisti sociali (i cosiddetti New liberalists), tra cui lo stesso Ritchie, cercano di “socializzare” il liberalismo, favorendo il recupero di una dimensione prettamente sociale, che investe anche il governo. Il liberalismo sociale, dunque, recupera una funzione imprescindibile dello stato, tutelando maggiormente l’individuo.

Se Ritchie fosse un nostro contemporaneo, quali riforme chiederebbe ai governi?

Ritchie non apprezzerebbe mai un’eccessiva autonomia dei privati rispetto alla società ma insisterebbe sul valore dell’istruzione, della sanità. Chiederebbe riforme in grado di cambiare positivamente l’assetto della società, senza scadere in una statalizzazione smisurata.

Passiamo all’uomo Ritchie. Com’era?

Parenti e colleghi ricordano Ritchie come un uomo molto disponibile al dialogo. Trattò i suoi avversari con estrema gentilezza, cercando di capire la posizione dell’altro e mostrandosi sempre propenso al confronto. I suoi modi affabili conquistarono la popolazione della cittadina scozzese di St. Andrews, dove morì a soli 49 anni nel 1903.

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