Le Patrie di Nichi Vendola: «Celebro una Patria plurale, immaginando una poetica delle capriole e dell’attraversamento».

by Felice Sblendorio

Il poeta è tornato. Non il Presidente, il politico, l’oratore: solamente il poeta, il custode delle parole e delle anime. Con le sue “Patrie” (Il Saggiatore, 192 pagine, 16 euro), Nichi Vendola è ritornato dall’esilio autoimposto, da quell’altrove che l’ha protetto negli ultimi anni. Ora è qui, in quest’antologia poetica che è un testamento e un manifesto, un attraversamento di parole e luce, di sentimenti e confini. Finalmente, fra queste pagine, c’è più Nichi che Vendola: nelle parole e nella passione. Identica a ieri, diversa forse solo nel grado di intensità, ma non ancora pronta per quel tempo che, come scrive, «viene anche per la resa». bonculture ha intervistato Nichi Vendola.

Nichi Vendola ritorna alla poesia per curare le parole incivili, capovolte e violentate del nostro tempo. Tocca ai poeti restituire nuova verginità alle parole?

Non si può chiedere alla poesia di sostituirsi alla politica, alla pedagogia sociale e civica, all’insieme delle agenzie educative che hanno la missione della civilizzazione dei consorzi umani. La poesia è una via di fuga all’incuria delle parole, un vaccino contro la pandemia semantica che minaccia la salute del nostro vocabolario, cioè della nostra umanità. Ma non è un programma di rigenerazione, magari è un promemoria per non smarrire il suono e il senso delle parole. Le parole parlano il mondo, fanno il mondo e sono fatte dal mondo. Quando le parole si ammalano, e si fanno rancorose, cattive, fanatiche, contundenti, ottuse e volgari, vuol dire che il mondo è precipitato in una zona d’ombra, in un punto di crisi che rimbalza dalla politica alle forme di convivenza. Vuol dire che il mondo è entrato in un tempo morto: come quando finisce il giorno vecchio e non nasce il giorno nuovo, e noi ci sentiamo spiazzati, confusi, impauriti e vorremmo replicare l’antica domanda biblica: “Sentinella, quanto resta della notte?”. La poesia, al massimo, può accompagnarci nell’attesa dell’alba.

Queste poesie non sono retoriche, teoriche, propagandistiche: appartengono più a una modalità di vita che al racconto o alla nominazione della vita stessa. A quale urgenza rispondono?

L’urgenza della scrittura è un fatto fisico, è una nascita, è un’agonia, è una resurrezione, drena tutta la materia emozionale e ideologica che è depositata nei nostri individuali saperi e ne fa un amalgama nuovo. Non descrive le ferite e la felicità del mondo ma sanguina, suda, vola e ride insieme al mondo. Non descrive la vita: è materia viva.

Patrie: sostantivo femminile. In questo caso plurale. Non la Patria Nazione, ma le Patrie delle differenze. Le sue sono Patrie dell’umano sentire?

A me fa paura la declinazione al singolare della parola Patria, bardata di coccarde e gonfia di retorica marziale, trascinata nell’arena politica come una sinistra allusione al primato della Nazione. Insomma, la Patria come culla della stirpe e mito della terra e del sangue, come spazio segnato dalla sacralità del confine: la Patria che si veste di nazionalismo è sempre una minaccia all’unità del genere umano, una droga per narcotizzare i popoli, un veleno per uccidere il sentimento della fraternità. Il mio patriottismo si fonda sulla ricchezza delle diversità: il confine esalta il dono di ciascuna differenza, annuncia la gioia della scoperta dell’altrui storia, ci richiama al gioco degli sconfinamenti.

Il sociologo Franco Cassano scriveva che «Il confine è il luogo dove due differenze si toccano, esperiscono ognuno tramite l’altra, la propria limitatezza». L’arroganza suprematista, razzista e nazionalista è un delirio che non riconosce il proprio limite?

Il suprematismo è la malattia infantile della mediocrità, è l’onnipotenza che maschera la paura dell’impotenza, è l’ignoranza che si muta in disciplina, è il vomito che si auto-rappresenta come champagne.

Il suo è anche un libro di mancanze, di vuoti. Quali sono le Patrie perdute?

Sono le persone che sono mancate, le assenze che straripano dai nostri cuori, i lutti che ci chiedono un’opera di continua rielaborazione del passato: l’esercizio della memoria per me è innanzitutto un antidoto all’irreparabilità della morte. Ma sono anche i luoghi che abbiamo abitato e che ci abitano dentro. La mia Patria è nella campagna balcanica, nelle città pullulanti della Cisgiordania, nei villaggi del Sud del Messico, nei boschi canadesi, nei paeselli salentini, nella mia Terlizzi, in tutti i ghetti abitati da ebrei: la mia è una Patria plurale e diffusa. La perdo sempre e cerco sempre di riconquistarla, sono un apolide multipatriottico, la celebro immaginando una scrittura trangender, una poetica delle capriole e dell’attraversamento.

Scrive: «Se ancora cerco/dentro l’antico pozzo/la luce e il suo memento/che poi soffia il giorno nuovo/ e nasconde il mio spavento». La speranza antica del giorno nuovo, di una liberazione collettiva da questi tempi confusi o il vizio laico dello stupore, illumina ancora il suo sguardo sulle cose del mondo?

Non si tratta solo del gramsciano “ottimismo della volontà” che accompagna come un’ombra il “pessimismo dell’intelligenza”. Si tratta della consapevolezza della nostra storicità, dell’essere tutti noi frutto di un contesto non mummificato ma mobile. In questa coscienza del movimento della storia in cui siamo collocati non vi è nessuna idea deterministica, non c’è nessuna avanzata lineare verso il progresso, ma vi possono essere rotture, accelerazioni, salti all’indietro, mutamenti rivoluzionari: ma è in questo quadro che può irrompere la soggettività, che può agire la potenza di un discorso di radicale critica dell’esistente, che può tornare in forme nuove la politica che si fonda su quello che Ernest Bloch chiamava il “principio-speranza”. Questo pensiero è il vizio laico che mi salva dalla disperazione.

La sconfitta” è dedicata a Pietro Ingrao. «Ma i secoli ci chiamano al dovere/a quel dovere pazzo/di non smarrire il senso delle cose». Qual è, oggi, il senso delle cose che non deve smarrire la sinistra?

La sinistra ha smarrito la questione sociale, che non vive solo come un generico afflato umanitario nei confronti dei più poveri: ma che vive come analisi materiale di ciò che produce diseguaglianza e di ciò che crea ricchezza sulla base di un generale impoverimento sociale e ambientale. La sinistra è nata sul nesso lavoro e libertà, poi ha smarrito il lavoro nell’innamoramento per l’impresa e ha quindi disconnesso la questione della libertà da quella del lavoro. Ma il punto, sia pure in un universo dei lavori completamente mutato rispetto al ciclo fordista, è ancora quello. Separare diritti civili e diritti sociali impedisce di interrogare la vita, le vite, nella loro quotidianità produttiva e riproduttiva. La sinistra deva tornare brechtianamente a interrogarsi sui “rapporti di produzione”.

Ma come si riaccende – seguendo Pasolini – quella fiamma di lieve carità verso l’altro, verso i poveri cristi che racconta, verso gli ultimi?

Quella di Pasolini era una fiamma, appunto, di “lieve carità” perchè il suo statuto intellettuale gli impediva una adesione piena alle ragioni storiche della lotta per il cambiamento. In fondo la grandezza della poesia pasoliniana è tutta in questa incredibile capacità di autoanalisi: io sono con te, dice al “morto disadorno”, Antonio Gramsci, ma anche contro di te “nelle buie viscere”. Perchè l’estetica passione, quella che lo fa innamorare della bellezza eburnea del volto di Ilaria del Carretto nel sepolcro lucchese di Jacopo della Quercia, è più sincera e potente del richiamo del suo bisogno di storia. Non a caso dirà che la “e” di “Passione e ideologia” non è una endiadi ma un ossimoro. Ecco: non chiediamo a Pasolini di essere un rifondatore della sinistra. Impariamo a leggere criticamente la letteratura e anche l’opera di Pasolini: perchè anche così si può rifondare un pensiero di sinistra.

In “Pasoliniana” lo ricorda senza nostalgia del passato, di una certa visione drammatica della libertà sessuale. Guarda oltre: «Io sogno sogni interi/che azzardano il gesto e la parola che portano nell’uovo/solo giorni veri/e un figlio, una radice». La sua generazione dell’orgoglio si è davvero emancipata da quella concezione traumatica di libertà?

Pasolini ha avuto, insieme ad altri, il merito di aver contribuito a rompere il silenzio sulla questione dell’omosessualità. Ma il suo mondo ne pagava le conseguenze con prezzi assai salati. I processi ridicoli, penosi e violenti dell’Italietta clerico-fascista contro di lui. Le campagne di stampa, gli insulti, la gogna, il martirio. L’omosessualità si dava finalmente nome, dopo i secoli della sua innominabilità, ma doveva vivere e spesso morire ai margini, sui marciapiedi, dietro ai cespugli, negli orinatoi, nella semi-clandestinità di un mondo che proibiva non solo la cosa ma soprattutto il nome della cosa. Ecco, parliamo di un tempo che precede il punto di svolta, di radicale svolta politica, culturale, antropologica. Il tempo del pride. Io mi sento padre e figlio del tempo del pride, molto più di quanto non mi senta figlio di Umberto Saba o di Pier Paolo Pasolini o di Sandro Penna o di Dario Bellezza. Il pride cambia anche il “verso delle parole”.

Lei non ha mai rinnegato il suo essere omosessuale e cattolico e non è rimasto succube, come invece Pasolini, del senso di colpa e dall’espiazione del peccato.

Il senso di colpa introiettato è il più raffinato degli inferni inventato dalla Chiesa cattolica per sanzionare la libertà sessuale. L’ho sputato fuori di me, mi sono esorcizzato da solo, ho impedito alla forza dei pregiudizi e dello stigma sociale di sporcare la mia soggettivazione, la rivelazione di me a me stesso, senza perdere la mia innocenza.

Oltre l’identità, in queste poesie c’è la terra, la radice di un Sud aperto e umano, capace di preservare lentezze arcaiche e proiettare sguardi moderni. Dedica una filastrocca ad Antonio Facenna, l’allevatore garganico travolto e ucciso dall’acqua nel 2014. Nel suo discorso di congedo, dopo dieci anni alla guida della Puglia, disse che Antonio era l’eroe di quella corale storia politica. Perché? 

A vent’anni, il “bel Capraro” di Vico del Gargano sceglie la sua terra, il lavoro dei suoi avi, l’impegno alla riscoperta delle tradizioni culturali e musicali del suo territorio, è un protagonista di un Sud che non fugge, non emigra, non subisce, ma sceglie il suo angolo di Sud: e muore durante un’alluvione mentre corre a mettere in salvo le sue caprette. Se ho fatto qualcosa di buono nella mia lunga vita nelle istituzioni ho cercato di farla per quelli come lui, come Antonio Facenna. 

In Patrie ci sono molti elementi che rimandano a suo figlio. C’è una mappa per orientarsi in questo intricato mondo e il suo amore per un bambino «che rende la vista/non foglio di rivista». Essere padre è l’impegno politico più concreto di una vita intera?

Offrire mappe è un cruciale compito educativo: la mappa della propria famiglia, la geografia delle generazioni che ci hanno preceduto, la mappa delle città in cui abitano i vari frammenti di famiglia, la mappa dei continenti, la mappa del mondo e quella dei mondi. A mio figlio ho regalato la bussola quando era ancora piccolo perchè volevo che capisse subito quanto è importante orientarsi e quanto l’orientamento dipenda dalla conoscenza. Cerco, cerchiamo di insegnargli la responsabilità e la generosità. Lui ci insegna ogni giorno la tenerezza.

Questa raccolta, una biografia poetica e politica, riassume i suoi ultimi quarant’anni, donati al lettore dopo un tempo di silenzio, di riflessione solitaria. Ha capito che cosa conta, realmente, in una vita?

Conta l’abbraccio, lo sguardo, la relazione, il senso dello stare al mondo, l’amore, la cura. Direi, in questo senso, che conta soprattutto la ricerca della bellezza dell’umano.

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