La Memoria di Javier Marias

by Raffaella Passiatore

La recente scomparsa di Javier Marias mi ha fatto venir voglia di rileggere le sue opere (mal rassegnata al dato di fatto che mai altre ne seguiranno).

La rilettura è andata a coincidere con le ultime elezioni italiane e non ho potuto fare a meno di associare il tema della Memoria -ampiamente dibattuto nelle opere dell’autore spagnolo- con l’attualità politica.

Marias ha un pensiero ambivalente e tutt’altro che rassicurante circa la Memoria.

Il ricordo può avere effetti negativi. Il segno o la testimonianza di un certo evento drammatico del passato, legano al trauma e possono influenzare negativamente il presente ed il futuro.

Ma le circostanze cambiano, i nemici non sono più nemici, il tempo passa, alcuni si ritirano, altri si nascondono, invecchiano, si stancano; in tanti muoiono e quasi tutto viene dimenticato. Ma non si sa mai. Può esserci sempre qualcuno che è rimasto fermo e ricorda, e non si placa.”( Cit.1) Dice Tomas Nevinson, il personaggio ideato da Marias nell’omonimo romanzo. E incalza Tupra, il superiore di Nevinson, agente dei servizi segreti: “La viltà dei padri è irresistibile per i figli e, se non per loro, per i nipoti…” (Cit.2)

Accade spesso che, tempo dopo aver concluso un’opera, l’autore tenda a dimenticarne i dettagli, tanto che all’ascolto di un suo verso o breve passaggio egli non riconosca quei brani come propri. Il meccanismo psicologico è ovvio: fare posto al nuovo, liberarsi del “figlio” ormai adulto, lasciarlo andare e gestare -nell’utero della mente- la prossima creatura. Il contrario sarebbe ciò che Borges definisce il passare la vita a correggere sempre e solo un unico libro che, pertanto, non vedrà mai la luce, e senza la minima indulgenza per l’umana imperfezione.

D’altra parte -sempre secondo Marias- la perdita della Memoria equivale alla disconoscenza ed impedisce che l’esperienza -reale o nella sua immaginaria ripetizione- possa servire da esempio, per evitare cioè la replica del misfatto. “L’ideale sarebbe avere la prescienza di ciò che ciascuno farà e che cosa diventerà. Ma se non conosciamo con certezza il passato, come potremmo avere idea di quello che verrà?” (Cit. 3)

Quindi ricordare ci renderebbe migliori, se solo la conoscenza del passato fosse possibile!

Proviamo a fare degli esempi.

Prendiamo un genocidio la cui memoria, ancora a distanza di generazioni, venga tenuta viva dai discendenti di quel certo popolo. Il risultato -nel presente e nel futuro- potrebbero essere la vendetta, la guerra, gli attentati, le faide. Oppure -a livello introspettivo- una sorta di depressione, un sentimento di persecuzione, una rabbia inespressa, frustrazione e senso d’inadeguatezza.

Meglio sarebbe quindi dimenticare? Meglio sarebbe interrompere la trasmissione orale dalle vecchie alle nuove generazioni ed eliminare lo studio sistematico della storia di quel certo evento? E, secondo questa logica, lo studio della storia dovrebbe pertanto limitarsi alle vicende “positive”?

Sui libri di storia cosa si dovrebbe ricordare allora, facendo un esempio a caso, dell’antico Egitto? Evidentemente solo della magnificenza delle piramidi, tacendo la brutalità nei confronti degli schiavi che le hanno erette (Tebe dalle sette porte chi la costruì?) e, per necessità e coerenza, bisognerà allora bandire anche i giornalisti, gli artisti, i poeti (come il citato Bertold Brecht) che ne fanno menzione, innescando un processo di censura trasversale ad effetto domino.

E, pensando alla stigmatizzazione artistica -sempre nell’ambito degli esempi-, andiamo al 1962; alla censura sovietica della Sinfonia n. 13 di Dmitri Shostakowich, nella messa in musica della poesia di Evgenij Evtushenko. Nella poesia di Evtushenko c’è un chiaro riferimento al massacro di Babij Yar ad opera dei nazisti tedeschi e dei collaborazionisti ucraini. Tale era l’antisemitismo sovietico da dover minimizzare un massacro, forse cercare di rimuoverlo, come spiega Antonella Salomoni nel libro Le ceneri di Babij Yar. Si dovrà aspettare il 1976, ben trentacinque anni dopo, affinché un monumento commemorativo venga eretto a ricordare quel tragico evento.

Non c’è dubbio che una siffatta narrazione della storia -anche con i migliori propositi- è faziosa e quindi, per un minimo di onestà intellettuale, non rimarrebbe altro da fare se non l’eliminare tout court la storia dell’antica civiltà egizia tanto quanto i massacri del Nationalsozialismus.

Cerchiamo allora altri metodi selettivi.

Forse un criterio è la distanza temporale? Ciò che è più lontano andrebbe dimenticato. Ma a che distanza dal presente dovrebbe scattare l’oblio? E sarebbe solo una questione temporale o anche diatopico-areale? Interverrebbe, cioè, l’inerenza ad un certo contesto geografico, linguistico o culturale?

Marias, usando questa logica, adduce come esempio la guerra Ispano-Americana sulla questione cubana del 1898. Una guerra che è interesse personale di Marias poiché la sua famiglia vi fu coinvolta, tuttavia l’autore si chiede se veramente degna di essere ancora oggetto di memoria e argomento di studio.

Ragion per cui sarebbe giusto che in Egitto si continuasse a ricordare in toto le antiche civiltà faraoniche ed invece dimenticarle ad altre latitudini? Di conseguenza si dovrebbero ricordare e studiare i crimini nazisti solo in Germania?

Veniamo a noi. Ammettiamo che si decida che il ventennio fascista italiano è un capitolo politicamente chiuso e storicamente insignificante e che faccia bene all’umore e alle coscienze dimenticarsene, magari abolendone lo studio scolastico.

Eppure sono proprio i nostalgici a volersene ricordare e, una volta abolita l’acribia delle prove, la storia inizia ad essere sostituita dalla narrazione.

Il Duce diventa come il bisnonno di famiglia, appiattito e semplificato agli aneddoti tramandati che diventano barzellette.

Ciò che rimarrebbe della memoria sarebbe un minestrone di aneddoti, sentito dire e leggende (“Quando c’era Benito i treni arrivavano puntuali, le paludi erano prosciugate, le porte delle case rimanevano aperte di notte, ecc.…). Evidentemente queste storielle fanno meglio all’orgoglio nazionale che la memoria dei campi di concentramento in Africa, l’olio di ricino, le leggi razziali, i pestaggi, la soppressione dei diritti civili e dei sindacati, l’abolizione della libertà di parola e di stampa, la violenza sui dissidenti, i ragazzi mandati al macello in guerra, gli assassiniî di stato.

Il nostalgico vive il passato emozionalmente e si nutre di devozione, alla stregua del fanatico religioso o del tifoso di calcio e, di solito -udite! Udite!- è un collezionista. Il bigotto ha i Santini, il tifoso adulto i trofei con i colori della squadra come il bambino le figurine dei calciatori.

Poiché gli atti sono più autentici delle parole, chi colleziona i busti del Duce difficilmente sarà credibile quando prenderà -con le parole- distanza da un passato fascista, anche se si tratta del Presidente del Senato italiano. Sarebbe contro natura, una menzogna per l’anima stessa del collezionista!

E l’Antifascismo? Roba da dimenticare, appunto! e da sostituire con ”Afascismo”, una sorta di negazione del Fascismo stesso. “Anti” presuppone una conoscenza del fenomeno ed una successiva presa di posizione contro il fenomeno stesso, l’alfa privativo elimina invece l’esistenza stessa del fenomeno. Non sono crucci linguistici, giacché la coalizione dei partiti che ha vinto le ultime elezioni in Italia non si è mai ufficialmente definita antifascista.

La tiritera che ascoltiamo dagli esponenti della destra è che una condanna al Fascismo dovrebbe essere alla stregua della condanna al Comunismo. È una corrispondenza errata per due motivi.

Il primo è che l’Italia ha creato il Fascismo -non il Comunismo- e l’ha vissuto come regime per un ventennio. Per quel principio storico di causa-effetto, per una vicinanza generazionale, per l’eredità politica e culturale, i pericoli di “rigurgito” ed emulazione possono riguardare in Italia essenzialmente il Fascismo, non il Real Socialismus che non c’è mai stato.

E, proprio dallo scollamento tra Socialismus e Real Socialismus, nasce il secondo motivo. Bisogna ricordare che nel Fascismo ci fu aderenza tra teoria e pratica, il regime del ventennio mise in pratica l’ideologia del movimento.

Il Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925 redatto da Gentile e La dottrina del Fascismo del 1932, redatto da Mussolini e Gentile insieme, esprimono programmi politici e culturali secondo un ideale perfettamente in sintonia con la pratica del Fascismo Reale: il nazionalismo, l’esaltazione della guerra, “il carattere religioso e perciò intransigente” (G.Gentile: Manifesto degli intellettuali Fascisti. Paragrafo 30), la realizzazione di uno stato antidemocratico e antiliberale, la superiorità razziale, la violenza legittimata…

Per il Real Socialismus non fu così. La realizzazione sovietica e poi maoista del Comunismo fu un’interpretazione parziale e distorta del Marxismo.

(E potremmo qui aprire una grande parentesi circa il revisionismo al Marxismo, partendo da Eduard Bernstein, passando per gli innesti nazionalistici di Benito Mussolini e magari tirando in ballo Augusto del Noce.)

La base teorica del Marxismo rimane -senza dubbio alcuno- egualitaria ed umanitaria, quella fascista non lo fu mai per sua definizione. Non tenerne presente sarebbe come affermare che gli abominiî ed i massacri perpetuati dalla chiesa cattolica siano da imputare alla filosofia del Cristo.

(Marco Tarchi è l’unico che io conosca che ne: Il Fascismo: Teoria, interpretazione, modelli tenti un revisionismo al Fascismo cercando di dimostrare una non aderenza tra ideale e reale, a mio avviso assolutamente arbitraria.)

Marias riesce meravigliosamente a spiegarci il pensiero del negazionista: “..in realtà è molto poco quello che ci risulta, voglio dire che quasi tutto quello che sappiamo lo sappiamo perché ce lo hanno raccontato altre persone, oppure i libri, i giornali e le enciclopedie, oppure è stato consegnato alla storia attraverso cronache, archivi e annali, ai quali diamo credito in quanto li sappiamo antichi e consolidati,come se non si fosse mentito e travisato il vero nei tempi passati e non avessero prevalso le leggende. Noi non assistiamo a quasi nulla, non vediamo quasi nulla, non siamo in grado di affermare quasi nulla con certezza, anche se lo facciamo di continuo. Ne consegue che non è difficile negare un fatto o l’esistenza di qualcosa quando si preferisce negarli, l’opacità del mondo e la sua pessima memoria (labile, dubbiosa, mutevole) ce ne porgono la possibilità su un piatto d’argento.” (Cit.4)

E qui si sentiranno rappresentati i terrapiattisti, i negazionisti dell’olocausto ed i nostalgici del ventennio.

Cosa c’è d’indubitabile nella Memoria se ogni individuo -legittimamente perché involontariamente ed in buona fede-, se ogni Potere –illegittimamente perché volontariamente ed in cattiva fede- riesce a modificarla, a mistificarla a suo piacimento e forse a sua immagine e somiglianza?

E quindi cos’è la Memoria, anzi spingiamoci oltre: cos’è la Storia?

Sappiamo che nei processi giudiziari le prove meno attendibili sono le deposizioni dei testimoni, poiché -spesso inconsapevolmente- menzogneri, o comunque solo parzialmente veritieri.

Ma veniamo al punto: possiamo dimostrare che la conservazione della Memoria (evidentemente limitata) o magari lo studio della storia (forse manipolata), ha tuttavia impedito il ripetersi delle nefandezze del passato?

La questione va intesa da un punto di vista storico-paranoico, in guerra è meglio non conoscere la storia, chi la conosce sa cosa faranno, probabilmente, certi bambini inoffensivi una volta cresciuti” (Cit.5)

Evidentemente una democrazia ed una dittatura hanno un concetto molto diverso di Memoria. Prendiamo ad esempio la Memoria della seconda guerra mondiale nelle due ex-Germanie, l’Occidentale e la DDR. È un caso che i maggiori gruppi di estrema destra negli ultimi settant’anni siano nati nella Germania Orientale, laddove non fu intrapreso un processo di analisi critica del passato?, Ovvero una rielaborazione della Memoria storica e una riflessione circa la responsabilità collettiva. Forse non è un caso che si registrino derive razziste, omofobiche ed antisemite proprio in quelli che furono regimi sovietici, in cui il potere si distinse per la manipolazione dei fatti storici.

Un tempo, la fotografia e la pellicola cinematografica erano una certificazione della Verità. Le nuove tecnologie, grazie alle straordinarie possibili manipolazioni, ci hanno privato di certezze; tutto può essere falsificato. (Eppure è proprio internet che impedisce l’oblio, con un materiale che, una volta inseritovi, può essere richiamato alla vista o all’udito davvero all’infinito!)

Marias, circa la tecnologia, parla di accelerazione dei processi: “ Alle nuove generazioni i tempi del Muro e dell’Unione Sovietica cominciavano ad apparire mitici quanto arcaici, quasi immaginari. Sì, così presto, questo è l’effetto della progressiva accelerazione del mondo.” (Cit.6)

La Verità sarebbe allora l’insieme di tutte le Memorie, di “todas las almas”, ed è -evidentemente- impossibile da raccogliere. Dobbiamo quindi rinunciare al concetto di Storia come Verità?

Marias offre la domanda e come risposta solo il dubbio.

La mia risposta è no; senza la Memoria e senza la Storia il percorso dell’Umanità non avrebbe senso. Senza la coscienza e la responsabilità del passato non si può vivere appieno il presente e non si può ideare il futuro.

Scrive Marx in una nota de: L’ideologia tedesca: “Gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita e lo devono, precisamente, in una maniera determinata; ciò è dovuto alla loro organizzazione fisica; così come la loro coscienza”. (Cit.7)

La Verità lascia una traccia nelle memorie ma il suo DNA è racchiuso nella Materia.

È possibile raccogliere l’essenza della Verità nella fisicità della Materia; nelle braccia marcate a fuoco, nei corpi dilaniati, nelle città rase al suolo, nelle foreste bruciate…

Innegabili sono i segni, le ferite, le cicatrici nella Materia.

Marias ci mette forse in guardia che il nostro tempo confonde la Letteratura con la Storia. La narrazione appartiene alla Letteratura, non alla Storia. La narrazione invece si va sovrapponendo alla Storia ed i romanzi prendono il posto degli eventi storici. Sta avvenendo una commistione perversa in cui il racconto prende a sostituire la Storia.

C’è tutta una schiera di giovani individui convinta che siano stati gli americani a liberare i campi di concentramento nazisti e non i russi, oppure che Salieri davvero abbia assassinato Mozart, perché così narravano due film di successo.

La Storia dovrebbe appartenere alla Materia come l’Arte alla Narrazione, mai viceversa.

E la Memoria? La Memoria è zona intermedia, un “Zwischenreich” fallace ma singolare, ci ricorda Marias, forse inseguendo Borges:

Tutto tra i mortali ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gli immortali, invece, ogni atto e ogni pensiero è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero senza principio visibile o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi, nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario, ciò che è elegiaco, grave, rituale, non vale per gli immortali.” (Cit.8)

E adesso, dopo quanto detto, ritorniamo per la seconda volta con la memoria alla strage di Babij Yar in Ucraina, proprio nella zona di Kiew; dove un gruppo d’assalto dei Nazionalsocialisti tedeschi tra il 29 ed il 30 settembre 1941 fucilarono 33.771 ebrei in trentasei ore; tra questi c’erano uomini, donne e bambini. E non è un caso che si erigano nei “luoghi della memoria” chiese, mausolei, installazioni e opere d’arte; anch’esse sono Materia, sono il prolungamento della sostanza fisica che il tempo ha annientato, nel tentativo -o desiderio- d’Immortalità ovvero: la conservazione della Memoria.

Oltre al “tardivo” monumento del 1976, Marina Abramovic crea nel 2021 The Crystal Wall of Crying; un muro del pianto fatto di carbone lungo quaranta metri, con settantacinque cristalli di quarzo che vi sporgono. È un muro da toccare, sul quale è possibile battere i pugni, spezzarsi le unghie, picchiare la testa. È una Materia Artistica che si sostituisce alla Materia Storica che il tempo ha reso cenere.

Quella strage accadde esattamente dove adesso si sta svolgendo un altro massacro. I corpi dell’eccidio del 1941 non esistono più ma nuovi se ne sostituiscono a riempire altre fosse comuni. Chi in questo momento sta gettando nuovi corpi in quei sepolcri, ha Memoria del massacro del 1941? E, se sì, come può quella Memoria non aver insegnato nulla? Anche erigere un mausoleo, allora, non serve a niente!?

La soluzione non è il sentimento di colpa e l’umiliazione delle nuove generazioni; la colpa dei padri che ricade sui figli. Ma non è nemmeno l’ignoranza; l’oblio e l’indifferenza, tanto per usare due termini cari a Borges.

La soluzione, forse, sta nella consapevolezza storica e nella responsabilità morale della Memoria. E

E allora, tornando al presente -in quello che abbiamo eretto a tempio della Democrazia italiana-, a nessun più spaventoso ossimoro e vergognosa promiscuità potevamo assistere come alla contemporanea presenzialità della Signora Segre

-Lei che è: Corpo Vivente della Storia e quindi Verità- e del collezionista di feticci.

Chissà quanti dei nostri elettori ricordano a memoria queste terzine:

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!»
(Cit.9)

  1. Javier Marias, Berta Isla. Edizioni Einaudi 2018 (P.355)

2) Javier Marias, Tomás Nevinson. Edizioni Einaudi (P.58)

3) Javier Marias, Tomás Nevinson. Edizioni Einaudi (P.21)

4) Javier Marias, Berta Isla. Edizioni Einaudi 2018 (P. 468)

5)Javier Marias, Tomás Nevinson. Edizioni Einaudi 2018 (P. 58)

6)Javier Marias, Berta Isla. Edizioni Einaudi 2018 (P. 418)

7) Friedrich Engel und Karl Marx, Die deutsche Ideologie: Thesen über Feuerbach (2)

8) Jorge Luis Borges, L’Aleph, L’immortale.Edizioni Paoline (P.785)

9) Dante Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio, canto VI (vv. 76-78)

Raffaella Passiatore.

Scrittrice, drammaturga e musicista.

Nata in Lombardia, dopo lunghi soggiorni in America Latina, si trasferisce nel 1989 a Salisburgo. Docente di Pianoforte e Musiktheater presso il Musikum di Salisburgo e di Italiano presso la società Dante Alighieri, l’Istituto WIFI e l’Università per il Turismo della stessa città. Numerose le regie teatrali in Austria ed in Germania.

Unica italiana ad aver conseguito il primo premio al concorso Schreiben zwischen den Kulturen di Vienna nel 2004, ha pubblicato per le Edizioni Florestano: Terre Straniere, Le storie sdrucciole, Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango, Un amore in cerca d’autore, Alla ricerca di un tango perduto e V.I.R.U.S cinque personaggi ai tempi del Corona.

Per Exil Verein di Vienna ha pubblicato Sprachsprünge, per Edition Tandem di Salisburgo: Il Tempo Leone/Die Zeit der Löwin.

Il suo ultimo romanzo Il passaporto giallo è edito dalla casa editrice L’orto della cultura di Udine.

Dal 2020 vive stabilmente a Padova.

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