Dalle reazioni psicosociali delle pandemie della storia all’attuale Coronaphobia, il professor Bellomo indaga “Il virus nella mente”

by Antonella Soccio

Non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico

Susan Sontag

Dai bubboni del Libro di Samuele e dalla grave epidemia che decimò la popolazione ateniese durante la Guerra del Peloponneso tra il 430 ed il 425 a.C., raccontata da Tucidide al Coronavirus, passando per la peste nera, il colera, la tisi, la spagnola anche nota come la pandemia dimenticata, l’Aids e la Sars, “Il virus nella mente” (Wip edizioni), disponibile anche in versione ebook, l’ultimo saggio del Professor Antonello Bellomo, Direttore del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura del Policlinico Riuniti di Foggia e Professore Ordinario di Psichiatria presso l’Università degli Studi di Foggia, è un percorso storico-narrativo delle principali epidemie della storia dell’uomo, dall’antichità ai nostri giorni, soffermandosi su quelle maggiormente documentate.

“Questo testo ha lo scopo di effettuare un’analisi delle credenze, dei comportamenti e delle reazioni psicologiche messe in atto dalla popolazione nel corso delle più importanti epidemie della storia, al fine di evidenziare quelle che si sono ripetute più frequentemente e di verificare se queste reiterazioni possano aver fornito utili indicazioni atte a modificare i nostri atteggiamenti e comportamenti nei confronti di situazioni analoghe nel presente e nel futuro. Ovvero, se, come affermò George Orwell in 1984, «chi controlla il passato, controlla il futuro»”, scrive lo stesso psichiatra nella sua presentazione.

Il pamphlet è molto interessante perché ripercorre le suggestioni storiche e culturali che le epidemie hanno lasciato all’umanità. Il professor Bellomo è un grande intellettuale, esperto d’arte e di cinema e nel suo testo emergono decine e decine di citazioni della creatività suggerita dai vari virus nel corso della storia dell’umanità e della letteratura e delle arti.

La peste nera medievale ad esempio è la cifra di tanta produzione letteraria e artistica di quelli che volgarmente sono detti i secoli bui. Il misticismo da Nome della Rosa è frutto anche di anni di sofferenza per l’epidemia. Difatti Bellomo evidenzia come molti artisti, come Pieter Bruegel il Vecchio (scelto anche per la copertina), Hans Holbein il giovane, contribuirono a fornire queste rappresentazioni della morte, esibendo una nuova sensibilità mistico-religiosa.

“Accanto a una visione più attenta alla morale e alle pratiche religiose, si sviluppò una tendenza alla vitalità e alla gioia, come testimoniato dal Decamerone di Boccaccio”, rileva l’autore. Le novelle sono un chiaro meccanismo di “negazione” della realtà atroce e della morte, adottati da alcuni gruppi di cittadini. Oggi si scende in piazza senza mascherina, nel Trecento ci si raccontava storie per sopravvivere.

Seducente anche l’esposizione sulla tubercolosi, ripresa dal melodramma e divenuta malattia romantica per eccellenza, malanno degli artisti, dopo essere stata associata al vampirismo, come ricorda il prof, e al mondo delle streghe per via della difficoltà dei pazienti affetti ad avere un regolare ciclo sonno veglia.

Bellomo rammenta anche Thomas Mann, che descrisse la Tbc come un simbolo di raffinatezza ne La morte a Venezia.

E che ne sarà invece del Covid? Quali comportamenti psicosociali ci lascerà?

Nella prefazione curata dalla docente di Storia e Filosofia Antonietta Pistone si rileva ciò che oggi è già visibile.

“Se una cosa è certa, è che abbiamo tutti capito di non essere immortali; di non aver risolto, una volta per tutte, l’eterna sfida della morte e della vita che, testarda, vuole sempre vincere la battaglia del momento con ciò che la mette in crisi, svelandone la fragilità. Abbiamo compreso che vivere è davvero un miracolo, e che a morire basta molto poco”.

Secondo lo psichiatra barese ormai foggiano d’adozione difficilmente sarà superata la distanza sociale in un Paese come l’Italia estremamente fisico.

“In Italia attualmente non ci si saluta più dandosi la mano, non ci si abbraccia più; forse anche i rapporti sessuali si sono modificati; è aumentato il distacco dai propri familiari anziani perché ritenuti maggiormente a rischio. La distanza sociale in alcuni casi è divenuta sospettosità, paura e talvolta vera discriminazione nei confronti dell’altro”.

Come tanti studiosi stanno teorizzando, l’altro non è più una risorsa, ma diventa una minaccia e un rischio da evitare. “E per proteggersi bisogna innalzare muri, steccati, divisioni, che alimentano la paura di qualcosa di invisibile, di indefinito e di non individuabile che, nella sua mancata identificabilità, genera angoscia e sviluppa in misura geometrica la potenza della sua carica psicotica”.

C’è sempre stata la tendenza a incolpare gruppi di persone “diverse” o comunque non appartenenti al gruppo dominante o principale, fa notare il professor Bellomo.

Il Coronavirus nella mente ha già prodotto in tanti la Coronaphobia, una condizione psicopatologica che si esprime come una angoscia diffusa e pervasiva. Quella che Freud, come indica Bellomo, definiva l’ansia da annientamento, la paura di essere cancellati.

Il virus va oltre la morte, induce gli essere umani ad una paura ancestrale di solitudine e stigma. Del resto come definire le morti solitarie nei carri di Bergamo e le bare depositate in attesa di sepoltura? Non è annientamento del corpo e della sofferenza, oltre che dell’identità, quel dolore atomistico?

Ci sono coazioni a ripetere nelle epidemie, conclude Bellomo. È bello pensare che le migliori riguardino l’approccio alla guarigione. Se nei secoli passati ci si affidava ai santi, come San Rocco e San Sebastiano, oggi gli operatori sanitari, scrive il professore, costituiscono i nuovi eroi della società italiana con un meccanismo psicologico che ricorda quei processi di beatificazione.

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