La saga famigliare made in Puglia di Bianca Rita Cataldi

by Emiliana Erriquez

Da pochi giorni in libreria, Acqua di sole (Harper Collins) è il nuovo libro di Bianca Rita Cataldi – autrice, editor, ghostwriter e traduttrice dall’inglese all’italiano. Il romanzo – un’appassionante saga familiare ambientata in Puglia negli anni 50 e 60 – racconta la storia di due famiglie partendo dal punto di vista di due bambini.

La scrittura di Bianca Rita Cataldi è energica, appassionante, come una carezza; i suoi personaggi non restano mai in ombra ma emergono con tutte le loro peculiarità e la sensazione, alla fine del libro, è che il lettore sia parte integrante della storia tanta è la capacità dell’autrice di permettergli di immedesimarsi nelle vicende narrate.  Abbiamo raggiunto Bianca Rita Cataldi, originaria di Bari ma che da anni vive a Dublino dove sta svolgendo un dottorato di ricerca presso la School of Languages, Cultures and Linguistics, per farle alcune domande e scoprire qualcosa in più sul suo libro.

Bianca, dopo I fiori non hanno paura del temporale, arriva Acqua di sole. Qual è la sua genesi?

Questo romanzo nasce soprattutto dai racconti della mia famiglia, e in particolare di mio padre e di mia zia Angela, che purtroppo non è più tra noi. Ho lasciato la Puglia da qualche anno e quindi questo libro è stato il mezzo che mi ha permesso di sentirmi vicina ai luoghi delle mie origini. Non potendoli vivere di persona, ho cercato di farlo attraverso i Fiorenza e i Gentile.

Perché hai scelto la saga familiare, un genere tornato in auge negli ultimi periodi?

Ho sempre coltivato il sogno di scrivere una saga familiare, ma ho aspettato qualche anno per mettermi alla prova con un genere così difficile. È complicato tenere le fila di così tante storie e così tanti personaggi che si incontrano e scontrano tra le pagine, e volevo essere sicura di essere pronta per farlo. Da lettrice, amo molto questo genere, e in particolare il modello della saga anglosassone, soprattutto grazie a Elizabeth Jane Howard e alla sua saga dei Cazalet.

Che storia è quella di Acqua di sole?  Raccontacela.

È la storia di due famiglie, i Gentile e i Fiorenza, l’una di coltivatori di fiori e l’altra di profumieri, molto diverse per classe sociale ed educazione, eppure simili per via delle loro fragilità e insoddisfazioni. Soprattutto, è una storia di bambini che imparano a conoscersi al di là delle loro differenze, e dei loro sogni di riscatto.

La storia è ambientata a Bari dove sei nata e cresciuta, una città da cui sei lontana adesso per terminare un dottorato di ricerca a Dublino. Com’è stato scrivere della tua terra da lontano?

È stato senz’altro un modo per sentirmi vicina alla mia prima casa, soprattutto perché ci ho lavorato anche mentre ero in viaggio al di fuori dell’Irlanda. Ho consegnato la bozza per il secondo giro di editing mentre ero in Estonia per lavoro, con tredici gradi sotto zero, e scrivere della Puglia e addirittura delle spiagge di Lecce in estate mi ha restituito un po’ del calore di cui avevo bisogno. 

Il periodo di riferimento di Acqua di sole sono gli anni 50 e 60. Essendo nata decenni dopo, ti sarai documentata da un punto di vista storico per rendere credibile la tua storia. Quale percorso hai seguito?

La base è stata di tipo accademico, che è comunque il mio pane quotidiano. Ho quindi letto libri di storia italiana dell’epoca, ma soprattutto ho spulciato negli archivi dei quotidiani. Poi, al di là delle testimonianze scritte, quelle orali sono state fondamentali: i racconti di chi quegli anni li ha vissuti davvero sono stati molto importanti per ricostruire la vita quotidiana delle famiglie, al di là degli eventi storici che si leggono sui libri. Talvolta, anche i blog sono stati utili.

La storia viene narrata da un punto di vista infantile all’inizio perché i due protagonisti, Teresa e Michele, si conoscono da piccoli. Seguiamo le loro vicende negli anni, mentre il loro legame cresce e si rinforza. Perché questa scelta?

Mi è sempre piaciuto raccontare storie dal punto di vista dei bambini perché trovo che il loro sia un racconto pulito, scevro dalle macchinazioni e anche dalle bugie che gli adulti si raccontano perché non hanno il coraggio di affrontare la realtà. I bambini hanno una vista acuta che permette loro di vedere ciò che spesso è invisibile agli occhi di chi si è lasciato alle spalle l’infanzia da tempo.

Quanto c’è di Bianca nella tua storia?

Di me in quanto Bianca c’è molto poco, il che è normale: di solito, il romanzo d’esordio è quello che più porta l’impronta autobiografica, ma poi questa tendenza si perde per strada (per fortuna, aggiungerei). C’è però qualcosa della mia famiglia paterna, per quanto riguarda la vita a Terlizzi e la coltivazione dei fiori.

Quanto hanno influito i tuoi rapporti familiari sulla scrittura del libro? Sono stati d’ispirazione?

Sì, soprattutto nei piccoli aneddoti di vita quotidiana (le storie intorno al braciere, il bucato in piazza, le donne a piedi nudi col fazzoletto intorno alla testa), e un po’ anche nei profili psicologici dei personaggi, soprattutto dei Gentile.

Come vivi questa tua condizione di expat? Senti forte il richiamo delle tue radici?

In parte sì, e in parte no. Come dice la mamma di Michele nel libro, è importante non dimenticarsi mai da dove si viene, quindi cerco sempre di ricordarmelo. Per il resto, amo molto la mia vita irlandese e mi sono sempre sentita a casa a Dublino. Diciamo che sono a mio agio in entrambi i mondi, anche se a volte la nostalgia di Bari si fa sentire, e specialmente in questo periodo di Covid che mi ha impedito di tornare a far visita alla mia famiglia.

Credi che saper leggere e scrivere in una lingua diversa dalla tua possa aver in qualche modo influito sulla tua scrittura?

Più che altro ha influito sull’ispirazione. Adesso, ogni volta che mi viene in mente una storia, non sono del tutto sicura di quale sia la lingua più adatta per scriverla. Mi sono data una regola, però: continuerò a scrivere i romanzi in italiano, ma mi permetterò di esplorare un po’ con le short stories in inglese.

Dove trai l’ispirazione per i tuoi libri?

Molto nasce dai viaggi, dai racconti delle persone che mi circondano, da quelli della mia famiglia. A volte, l’idea nasce dai libri che leggo e che magari sfiorano en passant un argomento che mi interessa e che vorrei approfondire. Altre volte, i libri sono un modo per trasportarmi in un luogo in cui vorrei essere in quel momento preciso della mia vita. Ho scritto molte storie (che non ho pubblicato) ambientate in Trentino Alto-Adige, per esempio, perché anche quella è una delle mie ‘case’.

Hai delle particolari abitudini quando scrivi?

Mi piace molto scrivere fuori casa, e in particolar modo al bar. Nell’epoca pre-Covid, ero solita andare in centro ogni sabato pomeriggio per un pranzo al volo da Starbucks e poi una lunga sessione di scrittura in uno dei miei bar preferiti di Dublino, il Tri Via Café. Ho un aneddoto divertente legato a quel bar: un giorno stavo scrivendo (a mano, perché si trattava di un raccontino in inglese) e un fotografo professionista mi ha vista oltre la vetrina e ha scattato delle foto. Io non mi sono accorta di nulla, ma lui poi si è presentato e mi ha chiesto il permesso di pubblicare le foto sul suo sito. Devo ammettere che quel bar è davvero la location ideale: tavolini di legno, vetrata che dà sulla strada, sedie vintage… molto suggestivo.

Quali altre storie vorrà raccontare Bianca Rita Cataldi?

Mi piacerebbe continuare ancora per un po’ con i Fiorenza e i Gentile. Vorrei poter vedere Michele, Teresa e Vittoria crescere, le loro famiglie incontrarsi e scontrarsi ancora, attraversare gioie e dolori e matrimoni e nascite e lutti e, soprattutto, mi piacerebbe continuare a esplorare la storia della Puglia in quegli anni. C’è molto da dire sul Sessantotto e sugli anni di piombo a Bari, benché non se ne parli spesso in narrativa.

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