“Nella trascurabilità non c’è grande differenza fra felicità e infelicità”. Momenti (semplicemente) trascurabili: un dialogo con Francesco Piccolo

by Felice Sblendorio

Ritornando alla quotidianità, non alla “vita di prima” che difficilmente ritroveremo, bisognerebbe adottare un libro – “super consigliato” come recitano le lunghe liste scolastiche – per interpretare al meglio lo spirito del tempo, quella dimensione che tutti abbiamo un po’ perso nei mesi precedenti e che ora abbiamo riconquistato con una riduzione algida abbinata a una fase e un numero: due, due bis, tre. Leggendo “Momenti Trascurabili” (Einaudi Editore, 136 pagine, 13 euro), la terza raccolta di frammenti di vita scritti da Francesco Piccolo, uno dei più abili scrittori e sceneggiatori italiani, ritroviamo proprio l’essenza del nostro umano sentire, la somma delle imperfezioni e delle ossessioni, delle manie che ci strappano un sorriso e dei lati malinconici e profondi che ci tormentano.

C’è tutta l’irrilevanza e la rilevanza, che in questi appunti e racconti s’intersecano e si confondono, delle nostre vite: misere e felici, trionfanti e sconfitte. L’autore, oramai a suo agio nella scrittura di queste micro-rivelazioni apparentemente banali, riesce a cogliere il punto più denso dei dettagli, di quelle piccole cose che facciamo e ci caratterizzano, ci identificano, ci armonizzano col sentire di quel magma reale in cui ci muoviamo. bonculture ha intervistato Francesco Piccolo.

In questo volume né felicità, né infelicità: i suoi momenti sono semplicemente trascurabili. Contiene già tutto questo aggettivo?

Sì, perchè col tempo ho notato che questa distinzione è sempre più labile, discutibile. Nella trascurabilità non c’è grande differenza fra felicità e infelicità: spesso quello che ci dà allegria ci dà malinconia e viceversa. Nella contingenza del presente, poi, abbiamo scoperto che il trascurabile non è poi così trascurabile.

Lei racconta la somma delle piccole cose di cui siamo fatti: ma la vita è nei dettagli?

Io vedo continuamente dettagli. Questo è quello che sembra a me, che sta davanti a me. Credo ci siano due motivi, però. Il primo è che la letteratura, da sempre, è fatta di questo: è fatta di dettagli. In qualsiasi racconto o romanzo, la grandezza di uno scrittore l’abbiamo notata per questa cura. L’altro motivo è che, per dare un senso all’esistenza, io credo bisogna concentrarsi non sui momenti dolorosi o euforici, ma sulla quotidianità. Nel quotidiano ci sono molti sentimenti per vivere a pieno la propria vita.

Questa trilogia sembra scritta con naturalezza, quasi di getto. Ma la semplicità non è sempre costruita?

In letteratura credo sia tutto costruito: la costruzione è l’unico modo per arrivare all’autenticità. Noi nella vita erroneamente pensiamo che la spontaneità sia autentica, ma la spontaneità dal punto di vista del contenuto è una cosa poco elaborata, mentre dal punto di vista della forma si aggrappa a stereotipi che già conosciamo. Per muoversi verso l’autenticità ci vuole un pensiero e una lingua propria che hanno bisogno di un’elaborazione più lunga. Se nella vita l’autenticità è una possibilità da costruire nel tempo, in letteratura è quasi un obbligo immediato.

Questi racconti, elenchi e battute fanno sorridere amaramente di noi stessi, del nostro sguardo sulla vita e sulle cose. Perchè continua a indagare la parte oscura dell’animo umano?

La parte luminosa non mi interessa perchè assomiglia molto a quel pensiero a cui oramai siamo abituati, ovvero una conferma di quello che già sappiamo, pensiamo, vogliamo. La parte buia, invece, è una parte che va indagata proprio perchè nessuno ha voglia di illuminarla da sé. In quel buio, dal quale ci si tiene lontani, c’è una quantità enorme di narrazione vergine che va esplorata e tirata fuori. L’oscuro ti porta a capire chi siamo, mentre la luce ci conferma quello che abbiamo già capito o, quasi sempre, quello che crediamo di aver capito di noi.

Lei non risparmia mai sé stesso. Grazie ai suoi libri conosciamo – nella trasposizione narrativa – i suoi fantasmi, le sue manie, le sue debolezze. Quanto siamo simili tutti noi, eroi e perdenti, al Francesco Piccolo che racconta?

Questa è una risposta che non devo dare io ma i lettori. Se loro si identificano o cercano di scacciarlo quel personaggio è perchè, almeno un po’, si sentono vicini. Quando si racconta è molto importante processare e mettere in gioco il narratore prima di tutti gli altri.

Cosa comporta su di sé questo processo?

È un grande dilemma che non so se riuscirò mai a sciogliere. Credo che comporti un lavoro enorme con dei risultati scadentissimi. Spero che nella letteratura non siano scadenti, ma nella vita sì, nel senso che tutto quello che costruiamo attraverso quell’Io autobiografico lo si fa in fondo per capirsi e migliorare. In letteratura, se il libro si arriva a scriverlo – neanche se il libro è bello – si arriva a questo passaggio, ma nella vita non noto cambiamenti enormi. Mi dico sempre: se scrivo questo libro sarò una persona migliore, ma mi accorgo che uso questa formula solo per scrivere il libro e poi tornare a essere quello che ero prima.

Non ha paura di sposare la causa della superficialità nei suoi momenti. Michele Serra su Repubblica ha scritto: «Se siamo ancora vivi, cari ragazzi e care ragazze, è solo perchè siamo superficiali». Anche lei, in questo mondo impegnato e morale, la rivendica?

Io penso che non bisogna mettere la superficialità contro la profondità e il moralismo contro l’impegno, perchè la parte moralistica la respingo senza dubbi, mentre l’impegno non lo respingo: anzi, ha più valore quando conserva più dubbi. La superficialità non è un valore se non sta accanto alla profondità, ma se l’affianca è legittimata a stare al mondo. Noi tendiamo a scacciarla, a darle un’accezione talmente negativa da provare vergogna nell’essere superficiali, ma io credo fortemente che anche attraverso la superficialità si viva il mondo, lo si comprenda.

Qualcuno potrebbe accusarla di cinismo. Lei scrive: «Il cinismo non serve a niente». Non si capisce quale sia il confine, se c’è, fra il disincanto e il cinismo nella sua scrittura.

Il fatto stesso di occuparsi dell’esistenza credo sia un gesto per nulla cinico: il cinismo non esiste se ci si occupa e si tortura sé stessi. Questo sentimento credo sia rivolto soprattutto verso il mondo, verso gli altri: è distanza, quindi superiorità. Invece scrivere letteratura, torturando la propria persona, è un atto di inferiorità. È un confine sempre molto sottile e pieno di ambiguità che, in questo caso, rappresentano un valore.

Se non per cinismo, la potrebbero accusare di “cattivismo”. In un racconto parla di due venezuelani che sua figlia avrebbe voluto ospitare a casa e delle reazioni di un Piccolo intento a immaginarli come suoi camerieri. Ma lei non è affetto da quella patologia comune a molti che risponde al nome di desiderabilità sociale?

Su questo sono molto netto: uno scrittore che sta attento ai conformismi culturali, ovvero a non far male e non pescare la parte peggiore di sé, non è uno scrittore fino in fondo. Per diventare scrittori non bisogna per forza pensare che i due venezuelani debbano fare i camerieri, ma bisogna buttare fuori quella roba che nessuno vorrebbe indagare. E se tirare fuori quello che nessuno vuole raccontare è il fatto di pensare ai due venezuelani come camerieri questa cosa va raccontata perchè è la parte più interessante in letteratura. Un conto è il cittadino che pensa all’importanza di accogliere tutti i poveri del mondo, altra cosa è lo scrittore che di quel cittadino non deve solo vedere quello che dice ma anche quello che ha nel profondo.

Meglio raccontare le cose vere che quelle giuste, dunque.

Esatto: questa è la grande differenza. L’idea di raccontare il mondo come dovrebbe essere, con le sue virtù umanitarie e la nettissima divisione fra ciò che bisogna fare e ciò che è proibito, dal punto di vista letterario non mi interessa.

Ma questo non è un manifesto contro l’impegno della letteratura nell’eroico tentativo di cambiare il mondo, Piccolo?

La letteratura lo può fare solo a prescindere dall’intenzione di chi scrive. Uno scrittore non deve avere assolutamente questo compito. Poi, se il risultato di quello che scrive si carica di questo compito e lui nemmeno se ne accorge – ovvero se non diventa un trombone santificato – questo va bene. Io non sono contro la letteratura che cambia il mondo, ma sono contro chi scrive letteratura con l’intenzione di cambiarlo questo mondo.

Ne “Il desiderio di essere come tutti”, vincitore al Premio Strega, raccontava che il compito degli scrittori, per molti, è quello di «tenere desta l’indignazione». Una distorsione problematica, no?

Sì, questo impegno civile tutto positivo degli intellettuali si è un po’ mummificato in Italia. Ovviamente ci sono persone che per questo rischiano la vita e sono rispettabilissime, ma non mi riferisco a loro. Mi riferisco a coloro che ritengono di dover spendere le proprie energie di scrittori – non di cittadini – regalando ogni tanto dei pensieri che tutti già pensiamo. L’indignazione è l’espressione di un pensiero già condivisibile. Questa cosa qui, che dal punto di vista di un cittadino è più che degna, per uno scrittore non è accettabile: uno scrittore deve pensare prima di tutto per sé stesso, quindi far pensare agli altri, delle idee che fino a quel momento non erano condivise in maniera lucida da tutti. Da molti anni, invece, in Italia si esprimono pensieri banalissimi spacciati per qualcosa di importante: una perdita di energia vitale per scrivere qualcosa di utile, in poche parole.

In questo volume non risparmia il club intellettuale, la compagnia di giro dei festival, gli «esperti di buoni pasto», insomma. Ironicamente propone un unico grande festival annuale per parlare e parlare come obiettivo finale. Le chiedo: quando si trova la giusta distanza dalle cose – fra una presentazione e un tweet impegnato – per scrivere?

La professione dello scrittore è molto cambiata. Oggi non ti limiti più a scrivere un libro, ma bisogna andare in giro, fare reading, interviste: esserci, anche fisicamente. Per me è bello ma coltivo sempre una distinzione importante: il tempo migliore della vita di uno scrittore non è quello della pubblicazione, ma quello della scrittura, della costruzione di un libro. La mia vera felicità corrisponde a quando ho pubblicato un libro e le porte si richiudono per cominciare a scrivere qualcosa di nuovo. Stare da solo immerso nella scrittura per anni è il mio vero momento di felicità.

Racconta che nei festival vi trasformate tutti in «Vistocheseilà», una condizione esistenziale che vi ingaggia a presentare cose diverse e impensabili. In quarantena, invece, si è trasformato in «Vistocheseiacasa»?

Esatto. «Vistochestoacasa» dico molte volte sì perchè è più facile fare tutto.

«La vita non finisce più, se si sa comprendere ogni singolo momento di un solo giorno», confessa nell’ultimo appunto. Ma non è proprio quello che abbiamo scoperto in questi mesi?

La decisione di fare uscire il libro adesso è stata spinta da questo pensiero: dopo la quarantena questi momenti hanno acquistato un senso diverso dai precedenti perchè abbiamo sperimentato che tutte queste piccole cose quotidiane, alla fine, hanno una loro importanza.

Di queste piccole cose ci sarà una che ricorderà nel tempo?

L’idea rilassante di non dover fare niente. Svegliarsi la mattina, non fare niente e non dover dire neanche un “no” perchè non c’era la domanda, non c’era la richiesta. Non fare niente è stata la cosa più pazzesca di questo tempo.

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