Non sta zitta Michela Murgia: «La differenza che sogni o che pensi di meritare, alla fine, finirai per farla»

by Felice Sblendorio

Le parole, per Michela Murgia, hanno un potere quasi magico, un potere politico capace di plasmare e influenzare la realtà. Lo ribadisce con forza nel suo ultimo libro, “Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più” (Einaudi, 128 pagine, 13 euro), un pamphlet arguto e polemico, scritto con la prosa sottile, colta e consapevole di una delle nostre scrittrici più apprezzate, su tutte quelle costruzioni di significato che sostengono un mosaico densissimo e radicato di discriminazioni e stereotipi nei confronti delle donne.

Un saggio, o un manifesto da sventolare, che ha la forza di argomentare, puntualizzare, immaginare percorsi e allargare orizzonti da attraversare insieme, senza più timori o ritrosie. bonculture ha intervistato Michela Murgia.

L’oggetto di analisi di questo libro è quel linguaggio sessista che riproduce e riflette disparità di potere. Questo processo come si insinua, prende forza e si irrobustisce nelle parole che abitiamo?

Procede per contrapposizione: una parola più sembra innocua e più è pericolosa. Davanti a una frase riconoscibile come direttamente sessista chiunque è in grado di percepire l’assurdità della situazione. Davanti a «era solo un complimento», che minimizza un conflitto e sembra dirti che hai frainteso un tono gentile, è più difficile far emergere una violenza sottesa perché si presenta con le migliori intenzioni. Anche «calmati» è subdola, perché la persona si preoccupa del tuo stato d’animo invece di prestare attenzione alla tua denuncia. Non è interessante la mia esuberanza caratteriale, ma quello che sto evidenziando. Se tu trasformi quel ragionamento in una devianza del mio autocontrollo, in un’incapacità di tenere a bada le mie emozioni, di fatto stai disinnescando quell’ingiustizia. Bisogna stare attente al maschilismo gentile, al sessismo che si presenta con le migliori intenzioni.

«Stai Zitta» è il segnale più rozzo, incontrollato, volgare. Ma come si decostruiscono gli altri modi più sottili di discriminazione?

Il primo passaggio è la consapevolezza: ho scritto un libro che è pieno di cose che le femministe sanno da anni, ma la maggioranza delle persone ci vivono dentro e non hanno un’interlocuzione per rifletterci. Mettere a fuoco l’ovvio è un esercizio intellettuale che serve per trovare strumenti di contrapposizione. Una volta che hai compreso come funziona quella costruzione retorica, che serve quasi sempre a sminuire un tuo disagio, allora puoi reagire. Tendenzialmente, poi, il maschilismo se non riesce a raggirare il tuo cosa, troverà il modo per agire sul tuo metodo. Non ti diranno «non hai ragione», ti diranno «lo stai dicendo male». Il sottotesto è: anche se sto perpetrando un’ingiustizia, ti chiedo di farmela notare con gentilezza. Molte donne scelgono di non aprire un conflitto perché pensano di non poter essere sempre in guerra. In molti casi, allora, la negoziazione è una delle soluzioni. Personalmente, però, negli anni ho capito che più negoziavo e meno ottenevo. Su certe questioni bisogna avere il coraggio di essere antipatiche e sgradevoli fino in fondo.

Le parole spesso condizionano la realtà e si fanno carico del peso delle discriminazioni, mutando così significati denigratori ormai anacronistici. Perché per le rappresentazioni sessiste è così difficile riconoscere e allargare una certa sensibilità?

Perché toccano le relazioni. Le donne sono perfettamente consapevoli di essere all’interno di dinamiche sessiste, ma sanno anche che queste dinamiche sono perlopiù mantenute da persone a cui vogliono bene. Così è molto difficile aprire una guerra ideologica. Mentre una battaglia sui migranti, sul razzismo o sulle tematiche Lgbt è di principio, la battaglia di genere è sempre personale: comincia dalla messa in discussione dei tuoi rapporti. Quando si raggiungono certe consapevolezze, poi devono seguire delle conseguenze. Molti uomini rifiutano l’ingaggio del discorso femminista, anche quando in teoria sono d’accordo, perché dovrebbero cambiare il modo in cui vivono. Gli stereotipi sessisti sono complessi da mettere in discussione perché su di loro si regge l’intero impianto delle relazioni sociali.

Sottolinea che non serve la vergogna, ma la responsabilità. In che senso?

Tu puoi anche non avere nessuna colpa del contesto in cui sei. Il nostro è un Paese sessista e patriarcale in cui chiunque ci nasce cresce maschilista. Le donne lo superano in fretta perché il patriarcato chiede a loro il prezzo più alto, ma quando agli uomini viene fatta notare questa ingiustizia rispondono in maniera difensiva: «io non ho fatto niente». È il famoso tema che non tutti gli uomini fanno questo. Senz’altro, però se non tutti hanno una colpa, tutti possono decidere di avere una responsabilità. Il sistema non è nato con te, ma è grazie a te se continua.

L’ha paragonato, fra mille polemiche, al sistema di omertà delle famiglie mafiose.

Io non ho dato dei mafiosi a tutti i maschi, ho detto agli uomini: in un sistema patriarcale nascete tutti maschilisti, che ne siate consapevoli o meno. Agite delle dinamiche che funzionano anche quando non le avete decise voi. Per cui, nel momento in cui cominciate a capire che agite senza volerlo, da lì tutto quello che c’è oltre la consapevolezza è una vostra responsabilità. Se continuate a non cambiare niente allora avete un problema, e non serve dire «non ho picchiato mia moglie» se poi hai sentito un vicino picchiare sua moglie e hai pensato che sì, fra moglie e marito fosse meglio non metter dito.

La grande difficoltà è riconoscere una discriminazione quando non la si subisce direttamente?

È una questione centrale. Chi vive fuori da una discriminazione è vero che non la percepisce. Io vedo buona fede da parte degli uomini che ripetono comportamenti sessisti e non se ne rendono minimamente conto. Se non ci fosse un dibattito sulla questione, potrei anche dire che non è colpa loro: però il dibattito di anno in anno è sempre più ricco. Io so che non posso comprendere la discriminazione che vive una donna di pelle nera, ma non significa che non posso mettermi in ascolto e farmelo spiegare. Ecco: gli uomini che dicono ora ti ascolto, spiegami esattamente quello che vivi tu, sono molto rari.

Qual è la cosa più difficile da far comprendere?

La percezione di pericolo davanti a quelli che loro chiamano complimenti e, invece, sono molestie verbali, è cat calling. È molto difficile far capire a un uomo che una donna apostrofata per strada da un estraneo, anche quando ti dice che sei bella, non si compiace, ma si spaventa.

Scrive che il consenso è sexy. E il contesto, invece? Un complimento muta di significato quando cambia contesto…

Sì, ma il contesto è ambiguo. Chi lo decide quando è sexy? Alcuni uomini tendono a considerare un contesto anche il modo in cui sei vestita. Se indossi una scollatura quello può essere già un contesto. Dire che il contesto è sexy è complicato, perché è sempre in capo al punto di vista. Mentre il consenso non è in capo al punto di vista, ma è legato al semaforo verde dell’altra persona. Credo che il linguaggio del corteggiamento sia un codice tutto da riscrivere, partendo dall’ascolto, sia per gli uomini che per le donne.

In questo libro mostra alcune distorsioni del linguaggio pubblico: critica, ad esempio, l’abitudine di chiamare gli esponenti politici donne con il loro nome. Considerando che succede anche agli uomini, perché sono fenomeni differenti?

Se io chiamo Salvini solo Matteo non sto mettendo in discussione il suo potere politico o la sua autorevolezza, ma sto edulcorando alcuni lati aggressivi della sua figura pubblica. Invece, quando chiami una donna solo Maria Elena, Giorgia, Laura, Ursula stai sottraendo un’autorevolezza faticosamente raggiunta dalle donne. Non stai definendo il lato amichevole di un potere politico, ma una familiarità che ti esime dal dover rispettare un’autorevolezza. Matteo ti porta su un piano affettuoso, Maria Elena su un piano confidenziale. Sono due cose diverse.

Si ironizza spesso sulla volontà di declinare al femminile alcune professioni. È un caso se questa ostilità diventa più forte quando si tratta di professioni autorevoli, di potere?

Certo, nessuno ha problemi a dire infermiera, ma se dici ingegnera – che condivide le stesse regole grammaticali di infermiera – ti dicono che è cacofonico. Forse perché non lo si pronuncia mai? Al crescere del prestigio percepito delle professioni, diminuisce la facilità dell’uso dei femminili. Anzi, i femminili a tratti si fanno scherno. Quando declini il femminile di una professione atipica per le donne sembra quasi una presa per il culo…

Anche in queste pagine continua a contare le donne che occupano posizioni di potere. Ma è un problema così evidente la cancellazione dello sguardo femminile?

Ammazza, sì. Fin quando uno non si mette a contare non si rende conto di quanto sia vero. C’è un percepito femminile molto più ampio e diffuso di quanto sia il femminile reale. Le donne sono infinitamente meno di quelle che ci aspettiamo. Nelle università ci sono tantissime donne, ma pochissime di loro diventano rettrici. Perché? Perché c’è un soffitto di cristallo enorme, con sistemi di cooptazione e concorsi costruiti da baroni maschi per i loro protetti. È difficilissimo che una donna riesca a raggiungere quel posto.

Quando riesce sembra un’eccezione.

Ai maschi basta esserci, mentre a una donna si richiede un’eccezionalità. Siamo tutte contente dell’eccezionalità delle donne che ci sono, ma mi chiedo per quale motivo le donne normali – che hanno anche le caratteristiche dei maschi medi – non possano fare la stessa carriera di un maschio medio. Che, di solito, è tutta fuorché media.

Il potere è un tema fondante della sua riflessione. Lei si sente una donna di potere?

Senza dubbio, non ho problemi a rivendicarlo. Molti rifiutano l’idea di avere un potere, ma se tu non riconosci quel potere significa che lo stai agendo senza né contezza e né responsabilità. Io ce l’ho, l’ho cercato e sapevo come avrei voluto usarlo. Quando ottieni una posizione in cui puoi scegliere, anziché essere scelto, il lavoro politico comincia in quel momento. La sfida non è raggiungere un potere, ma provare a costruire altre dinamiche, altri modelli.

Il potere lo si esercita difendendosi e difendendolo. La condivisione è impossibile?

È così nelle dinamiche maschili. Quando mi capita di lavorare all’interno di dinamiche di squadra con personalità diverse dalla mia mi rendo conto della quantità di energia dispersa a difendere un potere. In genere da questi contesti tendo a fuggire, immaginando di lavorare in una rete di relazioni. Questo si può fare, non sempre e non ovunque, ma spesso le donne non lo fanno perché applicano il potere maschile senza metterlo in discussione. In quel caso bisogna riconoscere che il successo solitario di una donna non è femminismo.

Lei rappresenta un’anomalia. Molte donne l’hanno aiutata, non è così?

Certo, nei miei libri ci sono sempre molti ringraziamenti. In questo ringrazio le tante femministe che fanno un lavoro importantissimo. Ringrazio e dico: non ho fatto tutto da sola, ma faccio parte di un percorso in cui sono in grado di riconoscere una genealogia, generare a mia volta e passare anche la palla. Il femminismo funziona quando non è una vox clamantis in deserto. Oggi siamo tante, siamo un coro: e più diventiamo forti e più sarà possibile stabilire un potere che sia con qualcuno e non contro qualcuno.

Grazie alla sua visibilità ha dovuto subire molti attacchi mediatici. Ci si abitua mai alla ferocia del giudizio?

Ci penso spesso. Secondo me è un prezzo che si deve pagare. Io mi difendo, anche giuridicamente, ma è importante far vedere che questa è una delle possibili reazioni, ma non deve essere quella che ti fermerà. Ho quasi abbandonato Facebook per non respirare più una certa aria tossica.

È più attiva su Instagram, infatti.

Su Instagram c’è la fascia d’età a cui amo particolarmente rivolgermi. Se vuoi cambiare il mondo non lo fai con chi ha 50 anni, ma con le giovani generazioni. Se devo spendere delle energie scelgo di parlare con persone che faranno la differenza. Lo so, è una sorta di eugenetica anagrafica, però le energie non sono infinite. Si deve sempre decidere, alla fine, dove fiorire.

Lei è fiorita molto in questi anni: ha scritto tanti libri, fatto militanza politica, attraversato vite e luoghi. Oggi, qual è lo sguardo che ha su di sé?

Mi viene da dire che sono dove volevo essere, e che i prezzi che ho pagato ne valevano la pena. Lo sguardo che ho su di me è di compiacimento: oggi sono una persona felice, una persona fortunata. Credo di aver potuto fare tutto quello che ho fatto anche per una ragione banale: non ho avuto figli. Per il tipo di lavoro che intendevo fare e la militanza che volevo vivere, la crescita di un bambino era completamente incompatibile.

Alla bambina che è stata, invece, che cosa direbbe dopo questi traguardi?

Credo si diventi femministe per contrapposizione. Lo sono stata sin da piccolissima perché sono cresciuta in un ambiente molto maschilista, dove i limiti imposti a me erano dichiaratamente differenti da quelli imposti a mio fratello. Oggi mi sembra che la mia coscienza femminile sia recente, ma in realtà era già fortissima allora. Alla bambina che sono stata mi viene da dirle, quasi con tenerezza: ne vale la pena, non farti addomesticare. La differenza che sogni o che pensi di meritare, alla fine, finirai per farla.

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