“Scacciarischi”, l’edu-game made in Puglia diventa soggetto di ricerca per il team di Media Psychology . L’intervista alla prof.ssa Francesca D’Errico

by Michela Conoscitore

Sono giunte alla terza edizione le Olimpiadi della Prevenzione, promosse da Regione Puglia e Inail attraverso l’innovativo videogioco Scacciarischi, ideato dalla società barese P.M. Studios. Insegnare ai più giovani come difendersi dai rischi a casa come a scuola o per strada, e utilizzare per farlo un videogioco è stato l’espediente vincente per appassionare tanti ragazzi delle scuole pugliesi che anche quest’anno hanno partecipato numerosi insieme ai loro docenti, incentivati maggiormente dal pericolo pandemico.

Infatti Scacciarischi è il primo videogioco in Italia che ha saputo coinvolgere i più piccoli sui temi della sicurezza specificamente in questo periodo, diventando addirittura un caso studio: il supporto creativo ha destato l’attenzione dell’Università degli Studi di Bari che lo ha scelto come soggetto di ricerca per il team di Media Psychology diretto dalla professoressa Francesca D’Errico.

Per comprenderne le potenzialità, bonculture ha intervistato la professoressa D’Errico:

Professoressa D’Errico che tipo di videogioco è ScacciaRischi e perché l’Università di Bari l’ha scelto come caso studio?

Lo Scacciarischi è un edu-game, un gioco che ha come obiettivo quello di educare (game-Based Learning), e le sue dinamiche di gioco sono ‘gamificate’, vale a dire sono strutturate sulla base di ricompense positive che aiutano il giocatore-educando a passare ai livelli successivi. Ma nel farlo spesso deve cercare di acquisire informazioni utili al gioco, è necessario cioè leggere e approfondire materiali a disposizione del gioco stesso. Questo induce il giocatore ad apprendere indirettamente conoscenze sulla base di un processamento affettivo positivo, cioè attraverso emozioni positive come l’entusiasmo e il divertimento, che essendo emozioni piacevoli portano con loro la caratteristica fondamentale di indurre a replicare quell’azione che le ha provocate. In letteratura conosciamo una miriade di edu-game, che vanno dall’apprendimento della storia alla scienza, alle più recenti applicazioni in ambito aziendale per la formazione degli adulti, ma lo ScacciaRischi è un ottimo strumento per l’acquisizione di conoscenze in tema di sicurezza a casa, a scuola e a lavoro. Apprendere sin da piccoli le regole di sicurezza in casa, può essere un buon modo per motivare i piccoli giocatori e le piccole giocatrici a sviluppare, non solo conoscenze, ma soprattutto una sensibilità e un’attenzione in merito ai rischi che anche un ambiente familiare può avere. Questo ha indotto il mio gruppo di ricerca, con la dott.ssa Scardigno e Papapicco ad occuparci della valutazione empirica di questi processi psico-sociali.

Lei è esperta di Media Psychology, una nuova branca della psicologia, ci introduce all’ambito di indagine e come rientra ScacciaRischi in essa?

La psicologia dei media, e negli ultimi anni quella dei nuovi media, la cyberpsicologia si occupa di studiare come la nostra mente, le nostre emozioni e le nostre condotte sono influenzate dai media e dalle tecnologie. Nel tempo questo tipo di studi è diventato interdisciplinare perché si è avvalso anche dell’apporto di esperti in computer scientists e di visual designer. In un primo momento infatti gli psicologi dei media studiavano ex-post l’effetto sui processi cognitivi ed affettivi di un tipo di tecnologia già presente, ma successivamente hanno iniziato a ragionare e a progettare assieme ad altri tipi di competenze, soluzioni ergonomiche, ma anche persuasive e affettivamente connotate, per indurre gli users a comportamenti adattivi e di salute, come quelli della sicurezza o del benessere – come quello dello Scacciarischi – ma anche a comportamenti virtuosi, come ad esempio quelli di cui recentemente ci stiamo occupando assieme alla prof.ssa De Carolis, del dipartimento di Informatica, dove appunto abbiamo verificato come un robot chiamato Pepper, attraverso il gioco, induca i bambini a rinforzare i comportamenti sostenibili e ecologici. Tutto questo circondate dalle richieste entusiaste di alunni ed insegnanti di continuare a giocare.

La ricerca vede come protagonisti non solo i bambini ma anche gli insegnanti, cosa è emerso finora dal Vostro studio?

Pur essendo ancora nella fase preliminare dell’analisi dati, i primi risultati che riguardano soprattutto gli studenti delle scuole medie, che abbiamo rilevato ci fanno ben sperare, perché quel che emerge in modo significativo è che non sia tanto il fatto di giocare o non giocare allo Scacciarischi, ma che sia determinante, soprattutto il fatto di giocare più possibile tutti i livelli del gioco, che vanno come nel ciclo della vita, dai rischi sulla casa, a scuola e sul luogo di lavoro (un cantiere ad esempio). Cioè gli studenti mentre giocano allo Scacciarischi, più salgono di ‘livello’, più sono coinvolti, aumentano cioè le emozioni positive associate al gioco, e più percepiscono i rischi evocati nei diversi livelli e più si percepiscono efficaci nell’affrontarli. Quindi il videogioco in questo caso è come se inducesse i partecipanti a migliorare non solo la loro consapevolezza dei rischi, ma anche la loro fiducia nel fatto di poterli gestire, diremmo in termini psicologici aumenta la loro ‘autoefficacia’. Naturalmente questi dati necessitano di una rilevazione longitudinale per comprendere se questo effetto perdura nel tempo, ma contiamo di farlo nella rilevazione del prossimo anno scolastico.

Dicevamo che sono coinvolti anche i docenti, loro come influiscono e qual è il loro ruolo?

Nel caso dello Scacciarischi abbiamo avuto la fortuna di poter coinvolgere anche gli insegnanti che hanno partecipato in modo attivo al progetto coordinato in modo impeccabile dall’Inail Regione Puglia, in particolare il dottor Cipriani e i suoi colleghi, che ha creato una vera e propria rete di docenti motivatissimi. L’ipotesi è un po’ quella delle aspettative positive, del famoso effetto Pigmalione applicato alle tecnologie, per cui un insegnante che ha un’idea positiva ed usa la tecnologia in modo funzionale con i suoi studenti, attiverà con più alta probabilità l’attenzione e la motivazione degli studenti a fare e a fare bene. Questo è stato visto ad esempio nel caso dell’apprendimento della matematica all’università di Coventry, ma ci aspettiamo che giochino anche nel nostro caso il ruolo di motivatori ‘smart’ e in fondo anche di ‘buon esempio’.

Che tipo di scuola del futuro intravede se i videogiochi diventeranno ‘strumenti’ didattici e pedagogici sempre più preponderanti?

Bella domanda, anzitutto perché questi processi psico-educativi vengano messi in atto è necessario che si investa in formazione continua, di aggiornamento e di continua sinergia con le Università, non può soltanto bastare la buona volontà e la motivazione degli insegnanti, come in questo caso fortunato. Doppiamente fortunato, per l’investimento di un’agenzia come l’Inail che si è avvalsa di validi programmatori per implementare il gioco, come l’equipe di Fabio Belsanti di PmStudios, ma anche perché in accordo con l’Università decide di investire e migliorare uno strumento utile all’apprendimento della sicurezza. Indubbiamente questa è una realtà virtuosa. E lo è anche per il nostro gruppo di ricerca, perché avere la possibilità di studiare in vivo, col supporto quindi delle parti in causa, docenti e studenti, programmatori e designer è il modo migliore per migliorare le cosiddette affordances, cioè le caratteristiche che la tecnologia deve avere per produrre engagement ed un cambiamento di atteggiamento degli studenti. La scuola che intravedo è una scuola capace quindi di usare tutte le strategie, dirette e tecnologicamente mediate, per appassionare gli studenti allo studio e all’approfondimento, e i giochi di certo sono un ottimo strumento per lavorare sulla motivazione degli studenti, e sulla riflessione dei temi evocati. Intravedo e spero che la scuola insegni a bambine e bambini non solo a giocare, ma anche ad inventare giochi, ad esser loro stessi ‘programmatori’ di esperienze mediate positive. Ma anche su questo c’è ancora tanta strada da fare.

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