D’Annunzio e i levrieri: storia di una passione incontrollabile

by Fabrizio Simone

Nei giardini del Vittoriale, ultima dimora di Gabriele D’Annunzio, è possibile imbattersi in un cimitero in cui riposano i veri compagni di vita del poeta pescarese, gli amatissimi levrieri. Ad essi, tra l’altro, è dedicata la sua ultima poesia (la lunga e cupa Qui giacciono i miei cani), trascritta nel 1935 passeggiando tra i cipressi e gli olivi su un libro dell’ammiraglio francese Jurien de La Graviere, Voyage de la Corvette la Bayonnaise dans les Mers de Chine (ben 24 edizioni tra il 1872 e il 1885). Anche se la passione dannunziana per i levrieri è piuttosto nota, in Italia mancava un volume capace di ricostruire minuziosamente il lato cinofilo di D’Annunzio.

I lunghi musi di D’Annunzio, curato da Sonia Ragno e Angelo Lodovico Anselmi per la M-House Editrice, non riempie soltanto un vuoto editoriale, ma offre un’infinità di documenti piuttosto difficili da reperire come le lettere alle amanti e quelle degli ammiratori, oltre che articoli pubblicati dai giornali americani, inglesi e francesi a proposito del suo interesse canino, gettando luce su aspetti poco studiati.

Il giovane D’Annunzio scopre i levrieri grazie a suo padre. Francesco Paolo Rapagnetta, classe 1838, regala al suo terzogenito un levriero piuttosto ribelle, Max XV, che seguirà il poeta a Roma. Max ama le carezze dei bambini e odia gli altri cani tanto che, nel 1888, costringe il suo padrone a recarsi in questura perché le sue zanne bianchissime feriscono prima un bracco, colpevole d’essersi avvicinato troppo, e poi tutti gli altri cani accorsi in sua difesa, padroni compresi, armati invano di ombrelli e bastoni. Proprio a Roma, lavorando per La Tribuna, D’Annunzio tesse il più bell’elogio della sua razza preferita:

Chi non conosce e non ammira i levrieri, quei cani lunghi e smilzi ed eleganti che Diana prediligeva e che Paolo Veronese dipingeva con tanto amore? I levrieri sono, secondo noi, i più nobili fra tutti i cani. Essi non hanno, come il comune dei cani, la volgare abitudine della fedeltà al padrone, quella vile abitudine che i poveri di spirito gabellano per virtù. Essi certamente non si lascerebbero morir di fame su la tomba del loro signore; e la tomba di Edoardo III informi. Essi sono liberi, forti, indipendenti, pugnaci, audaci, volubili; hanno la grazia del serpente e la terribilità dei felini. Le loro forme sono rappresentate sugli antichi monumenti egizii. I tartari, i persiani, gli abitatori dell’Asia Minore, i beduini, i kabili, gli arabi, i sudanesi, gì’ indiani e molte altre genti dell’Africa e dell’Asia centrale li onorano e li stimano quasi al pari dei cavalli. In certi luoghi il valore del levriere è determinato dalle leggi. […] O belle dame di Roma, proteggete i levrieri ! Fate che anche qui i levrieri salgano in onore, i grandi cani lucidi come la seta, smilzi, dalle gambe nervose, dal muso di luccio, dal ventre roseo, dal fianco palpitante, come voi ardenti, come voi audaci, come voi infedeli.

Max XV, però, non vivrà a lungo: è affetto da idrofobia e D’Annunzio mette fine all’agonia dell’amato cane con un colpo di pistola. Alla Capponcina s’apre un nuovo capitolo nella vita del poeta. Per i suoi cani – 16 levrieri inglesi (greyhound), 11 levrieri russi (borzoi) e lo spaniel Teliteli – fa costruire un grande canile e cura personalmente i suoi piccoli amici a quattro zampe, medicandoli, fasciandoli, usando anche l’ago quando occorre. Il 4 giugno 1906 si registra un episodio destinato a non passare inosservato: il piccolo Magog, un greyhound di 10 mesi promesso in dono al figlio del poeta Adolfo De Bosis (Pascoli gli dedicò i Poemi conviviali), viene ritrovato in un fosso con circa 30 centimetri d’acqua nei pressi di una casa non molto distante, ucciso a bastonate da Francesco Volpi, colono trentaquattrenne. Il poeta chiede giustizia e il processo finisce sui giornali: il pretore di Firenze condanna il Volpi a 10 giorni di detenzione e a 50 lire di multa per aver ucciso il cucciolo.

 Costretto a lasciare la villa e l’Italia a causa dei debiti, D’Annunzio si trasferisce in Francia. I suoi cani vengono venduti all’asta. Tutti tranne uno: un grande levriero nero di nome Veronese, regalato a D’Annunzio dal direttore della rivista La Scena Illustrata, che riesce a scappare e a tornare da Pilade Pollazzi. Allo chalet Saint-Dominique, vicino al villaggio di Moulleau e a cinque chilometri dalla piccola cittadina di Arcachon (non più di 10 mila abitanti), D’Annunzio alleva quattordici levrieri russi, mentre i levrieri scozzesi alloggiano alla «Grange de la Dame Rose», una fattoria con annesso canile nei pressi di Parigi, in cui vive la sua amante, il soprano Nathalie de Goloubeff. I loro levrieri gareggiano all’ippodromo di Tremblay e di Saint-Cloud, sbaragliano gli avversari nel coursing (la corsa alla lepre terminava con lo squartamento del povero animale da parte del vincitore) e si aggiudicano premi prestigiosi come il Prix du Berry. Stimato da tutti gli allevatori e membro del prestigioso Greyhound Club de France, D’Annunzio offre persino un premio a suo nome: il Prix D’Annunzio consiste in una coppa in argento, forgiata dalle officine orafe del napoletano Giacinto Melillo, che riproduce un askos romano conservato al Museo Archeologico di Napoli. Annuncia persino che scriverà un’opera dedicata ai levrieri, le Vite di cani illustri: non una raccolta di biografie canine, ma osservazioni frutto della sua esperienza quotidiana con i levrieri. L’opera non sarà mai scritta. Con la Prima guerra mondiale i cani abbandonano i due proprietari e vengono venduti o regalati. Due finiscono a fianco del maresciallo Pétain, altri rallegrano la giornata di importanti nobildonne. Ma l’impresa di Fiume è vicina: nella città croata sarà accompagnato da un solo levriero, la fedelissima Crissa.

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