Il nodo magico. Ulisse, Circe e i legami che rendono liberi. «L’Odissea è un’enciclopedia femminile»: intervista a Cristina Dell’Acqua

by Michela Conoscitore

Dopo Una spa per l’anima, la professoressa Cristina Dell’Acqua torna in libreria con Il nodo magico. Ulisse, Circe e i legami che rendono liberi, un’altra imperdibile summa mitologica della scrittrice milanese che attraverso una sua preziosa dote, sviluppata grazie alla passione per l’insegnamento, riesce a rendere vive e ad attualizzarle memorie antiche. Nella narrazione della professoressa Dell’Acqua accade cosi che figure mitiche come quelle di Ulisse, Penelope e lo stesso Omero ci vengano incontro per raccontarci qualcosa di noi, usando parole millenarie che custodiscono l’eterno ritorno dell’umanità.

Se nel suo primo libro ha reso dei life coach i più importanti scrittori greci e latini, ne Il nodo magico Cristina Dell’Acqua guarda all’Odissea e scoperchia un vaso di Pandora: ci svela che il viaggio dell’eroe omerico altro non è che una metafora della vita, fatta di incontri e metamorfosi continui e necessari. Le mutazioni nell’animo di Ulisse sono soprattutto il frutto dei suoi legami con le donne, dee che tessendolo, modificano direttamente e di riflesso, il destino di Ulisse. Mortali o immortali, poco importa perché la scrittrice ristabilisce la preponderanza della componente femminile nella storia, nata in una società essenzialmente misogina.

Professoressa Dell’Acqua come nasce Il nodo magico?

Per me l’Odissea è il classico libro da comodino, avevo una curiosità che mi portavo dietro dai miei anni del liceo, legata al verso dell’ottavo libro del poema omerico in cui si fa accenno ad un nodo. Riguarda Arete, la regina dei Feaci, tra le tappe più importanti del viaggio di Ulisse, quella che lo consegna all’isola di Itaca. Arete fa preparare uno scrigno di tesori degno di un re, e lo consegna ad Ulisse consigliandogli, vista la particolarità del viaggio, di legare il prezioso dono con uno stretto nodo. Sempre la regina gli suggerisce di usare il nodo che la maga Circe gli aveva insegnato, molti anni prima. Lo definisce un nodo complesso, come la vita. Si sa che agli scrittori piace giocare, perdersi nei dettagli. E da scrittrice io stessa, amando l’idea di un legame particolare tra Ulisse e Circe, mi è piaciuto approfondirlo e tenere la tematica, quella appunto delle relazioni, come filo conduttore del libro.

Perché scrivere proprio dei legami?

Perché siamo il risultato degli incontri che facciamo. Alcuni capitano, altri li cerchiamo. E non parlo solo delle persone, intendo anche gli incontri con i libri.

Il suo saggio parla dei nodi relazionali che tutti noi instauriamo nel corso delle nostre vite. Nel tempo in cui stiamo vivendo, segnato dalla pandemia, quanto contano quei nodi? Dopo quel che abbiamo vissuto sarà più difficile scioglierli?

È una costante, a tutti capita una volta nella vita di perdersi. Quel che è successo con la pandemia. Quando si è ‘naufraghi’, volendo utilizzare la metafora omerica, da qualche parte si deve ricominciare, così io sono ripartita proprio dai legami. Per me, ma credo per tutti, sono stati fondamentali in questi mesi quelli con la mia famiglia e i miei studenti. Sullo scioglierli, ovvio che determinati momenti mettono a nudo il valore di un nodo, alcuni legami potremmo vederli sotto una luce diversa. Questo tempo è stato un setaccio, i legami veri sono rimasti all’interno di questo setaccio.

Tutti da sempre abbiamo percepito l’Odissea come un insieme di avventure e peregrinazioni di Ulisse, una narrazione abbastanza sofferta. Invece il suo libro lo presenta anche come il viaggio emozionale ed emotivo dell’eroe omerico. Perché questa lettura dell’opera non è messa in luce più spesso?

Non saprei dirle il perché. Premetto che i libri assumono un certo valore a seconda del momento in cui li leggiamo. Come avrà notato, quello raccontato nel libro non è il momento del viaggio in cui avvengono le avventure ma gli incontri. Secondo me di questa parte colpisce che ogni tappa del viaggio ricostruisce un pezzo di Ulisse, e modifica i personaggi con cui lui entra in contatto. Torno a quel che dicevo prima, vedo in questi incontri i momenti in cui ci rispecchiamo.

Un altro aspetto che spesso non viene menzionato, anche con i ragazzi, quando si approccia l’Odissea è l’importanza dominante delle donne nella storia di Ulisse. Lei, per fortuna, ce le ha raccontate tutte…

L’Odissea è un’enciclopedia femminile perché è l’antenato dei nostri romanzi. Attraverso il metodo narrativo, omerico ed arcaico, sono presentate sfaccettature all’interno di tante donne differenti. In questo ci vedo una sorta di educazione sentimentale, soprattutto nelle due figure speculari che ho amato raccontare, Circe e Penelope. Vista dal di fuori, Circe è la maga che trasforma in animali i suoi ospiti, e a cui piace sedurre. Ma vista dal di dentro si nota il cambiamento che l’anno insieme ad Ulisse ha prodotto in lei. Ulisse ne parla come di una maga dalla voce umana, eppure lei è una dea. Dopo l’incontro con Ulisse, viene fuori questo afflato umano, la sua natura smette di ordire inganni contro di lui e depone le armi. Nel momento dell’addio, che è simile a quello con Calipso ma, a differenza di quest’ultima che cerca di irretire Ulisse e di trattenerlo, Circe non gli ruba un’ultima notte di amore ma lo prende per mano, e lontano dai suoi uomini gli raccomanda quel che deve fare in futuro. Queste per me sono le conversazioni che legano più di un amplesso amoroso, i dettagli del racconto omerico che, come donna, mi colpiscono perché riportano aspetti del nostro modo di essere. Ci possiamo riconoscere in tutte le protagoniste dell’Odissea, e a mio modo di vedere, funzioniamo nella nostra femminilità quando capiamo di essere costituite da tutte queste componenti, non demonizzandone nessuna.

Ma Penelope?

Con Penelope ci ho fatto pace da adulta. Da giovani la si tende a vedere come una figura passiva. Invece, con responsabilità ha saputo svolgere il suo ruolo. Oltre al fascino che le è attribuito da Omero, Penelope possiede una finezza strategica non da poco. Quando fa cadere Ulisse nella rete della gelosia, quella è una scena decisamente memorabile.

L’aedo Omero, però, sembra nutra un sentimento negativo delle donne: “Delle donne non bisogna fidarsi”, fa dire ad Agamennone durante il suo incontro con Ulisse negli Inferi. Qual è la visione del mondo femminile per il poeta?

La risposta più vicina al vero è questa: quando quella frase viene pronunciata, durante la discesa agli Inferi, è un momento fondamentale nella strutturazione del ritorno di Ulisse. In questo viaggio oltre la vita, egli irrobustisce il proprio sentire verso la famiglia, e in un procedimento quasi filosofico Ulisse si vede contrapposto ad un’altra coppia, quella formata da Agamennone e Clitennestra. Lei che tradisce il marito, lo uccide con l’amante Egisto e si impossessa della casa. La società greca arcaica, purtroppo, era molto misogina, però Clitennestra evocata in questo punto del libro e collegata indirettamente ad Ulisse, ne esce fuori come una figura complessa e sofisticata. A ben guardare questa donna di cui non ci si dovrebbe fidare, oltre ad aver subito quel che hanno subito tutte le donne, ha anche provato il dolore per la morte della figlia Ifigenia. L’idea che la donna fosse un essere che non si sapeva bene da che parte prendere, tuttora probabilmente è così, era un pensiero assolutamente condiviso.

Vivere e pensare in greco significa cercare i nostri limiti, la linea di protezione tra noi e il mondo”: ne Il nodo magico riporta questa riflessione di Marguerite Yourcenar, che a me ha ricordato un po’ la visione delle colonne d’Ercole. Quanto la grecità impregna la nostra conoscenza occidentale?

La impregna moltissimo. Pensare alla greca permette di avere una visione più filosofica della vita, se vuole anche astratta. Soprattutto, significa saper considerare sempre le conseguenze delle proprie azioni, e possedere quella saggezza antica che ci permette di guardare più in là di quella che è la nostra immediatezza. Così ci accorgiamo dei nostri limiti, che è giusto che ci siano e sono la nostra salvaguardia. La fragilità è quello che siamo. E questa finezza non riguarda solo i pensieri, si estende anche alle parole. Quando si pone attenzione a quel che si pensa e a quel che si fa, anche il linguaggio cambia. Penso ai giovani, in particolare.

In merito a ciò, quanto gli antichi rivestivano di potere le parole e come lo facciamo noi contemporanei?

Gli antichi consideravano la parola come uno strumento di persuasione, quindi era manipolata e manipolatoria. Per i greci prima, per i romani poi, le parole erano come delle armi. Però per me l’aspetto meraviglioso che loro curavano moltissimo era quello dei contenuti: parlava chi era stato nutrito di contenuti, lo dimostra bene Cicerone nel De Oratore. La parola, oggi, possiede la stessa potenzialità ma è usata con troppa disinvoltura. In questo momento storico noi utilizziamo la parola scritta più di quanto ci rendiamo conto di fare, penso ai social e alle chat. Troppo spesso consideriamo queste conversazioni scritte come un’estensione del discorso orale, convinti quindi che non lascino segni. In una commistione di forma e sostanza, ci si accorge facilmente di questa assenza di limiti che fa molti danni soprattutto nei giovani. Un’educazione alla greca, come le dicevo prima, gioverebbe.

Questi viaggi di carta quanto sono necessari ora, soprattutto per i ragazzi?

Sono fondamentali. Questi viaggi di carta sono cibo che nutrono i nostri pensieri e parole. Dico sempre che i libri basta leggerli, non si devono fare grandi cose.

PH MARTA D’AVENIA

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