Mai più senza maestri: un dialogo con Gustavo Zagrebelsky

by Felice Sblendorio

Esistono ancora e a cosa servono, precisamente, i maestri? Il dibattuto dilemma è tornato attuale in queste settimane grazie al nuovo saggio, leggero nella forma ma denso di spunti e riflessioni nella sostanza, del professor Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale e docente emerito di Diritto Costituzionale all’Università di Torino.

L’apprezzato giurista, noto al grande pubblico per i suoi scritti divulgativi sul diritto e sulla Costituzione, è tornato in libreria con “Mai più senza maestri” (il Mulino, 160 pagine, 14 euro) per indagare e costruire il perimetro e l’azione del maestro, figura oramai ridimensionata da tutti e ridotta al silenzio: profilo ingombrante ai tempi degli influencer, dei social, della conoscenza fai da te. Ma chi sono, oggi, i maestri? Zagrebelsky non ha dubbi: sono ancora delle guide di spirito che risvegliano le coscienze, creando “continuità, contiguità, ma anche divisioni, rotture: non per il gusto di rompere, ma per riallacciare i fili dispersi in un mondo nuovo”. Sulla figura del maestro, sul maestro che è stato e sui suoi di maestri, bonculture ha intervistato il professor Zagrebelsky in occasione dei Dialoghi di Trani.

Professor Zagrebelsky, il suo libro prende spunto da uno slogan di quel ’68 parigino che sognava una società più egualitaria e libera: “Mai più maestri”, appunto. Quel motto, oggi, verrebbe pronunciato in maniera ancora più violenta: perché fa sempre così paura il magistero?

Perché, a mio modo di vedere, i maestri sono dei soggetti scomodi per il loro compito di mettere in discussione il nostro modo di vivere, di proporre cose nuove che si possono conquistare e realizzare con un certo sforzo. I maestri, da sempre, sono fastidiosi. Già nei Vangeli c’è un’invettiva del Cristo contro “Gerusalemme che uccidi i tuoi profeti”. I maestri sono dei profeti nell’indicare obiettivi futuri che ci mettono in discussione, e sono degli innovatori che mirano a portare con sé una comunità ampia di persone su un percorso alternativo: per questo fanno paura. L’etimologia, poi, ci aiuta sempre: magister. “Magis”, di più, e “ter”, che significa portare più in su rispetto a qualcuno. In questo libro paragono il maestro alla guida alpina che ha la responsabilità di portare chi conduce sul cammino giusto: in cima o a terra.

È presente in tutto il suo discorso l’idea del magistero come aspetto di liberazione, seducente e pericoloso, che concorre a educare alla piena autonomia. Nella società di oggi c’è ancora questa consapevolezza?

Senza avallare una retorica del pessimismo da cui bisogna sempre difendersi, direi che oggi la figura della libertà garantita dai maestri sia stata surclassata dagli influencer, gente che ha milioni di seguaci – non si sa bene sulla base di cosa – che con i propri adepti stabiliscono un rapporto di fanatismo, non di libertà. Ora, questi sono i nuovi maestri, le nuove guide? Per me no: sono delle pialle, non propongono nulla di innovativo, nessuna sfida verso il futuro, nessuno sforzo per andare oltre al pensiero annacquato, livellato, con tutti gli altri che si adeguano semplicemente al luogo comune di massa.

Nel saggio sottolinea l’inflazione dell’eccellenza, ricordando appunto come tutti siano omologati ma non ci sia “nessuno che tolleri di essere normale”. Quando una società abolisce l’alto e il basso cosa succede?

La scomparsa dell’alto e il basso, quando si parla di uguaglianza, è sempre un obiettivo della nostra società. Una cosa però è l’uguaglianza, un’altra cosa è l’omologazione. Noi dovremmo sostenere l’uguaglianza delle opportunità, come parità di occasioni per essere ciascuno se stesso e non uguale all’altro. L’uguaglianza è un’ottima cosa, ma guai se si trasforma in egualitarismo. Dall’altra parte c’è il tema della società del consumo, del consumismo che riduce questa distanza, del capitalismo produttivo che ha bisogno di produrre merci per un mercato e quindi di consumatori omologati, uguali. Non si producono mai merci differenziate: quelle particolari costano molto di più. Per questo è utile una cultura conforme.

Far conoscere e far comprendere sono due degli impegni più alti e complessi: non crede che tutto questo sia stato oltrepassato dall’interpretazione singolare delle conoscenze, delle notizie, dei dati di fatto?

Io distinguo tre livelli di conoscenza. Parto dalla conoscenza dei dati. Facciamo un classico esempio: lo stermino degli ebrei. Da un lato c’è la conoscenza di cosa è accaduto e qui c’è un criterio di verità o falsità. Questa è la vera conoscenza. A questo punto potremmo dire che i campi di sterminio sono esistiti perché ci sono testimonianze provate e che avevano come scopo la soppressione degli ebrei, rom, omosessuali. La seconda fase è l’interpretazione, dare un significato alle cose che succedono. Cosa voleva dire quello che è successo? Potremmo ipotizzare: la Germania era un paese malato, insicuro, aveva un tasso di disoccupazione e inflazione terribile ed è possibile che sia nato così un pregiudizio forte e una voglia di individuare un capo espiatorio. Altra interpretazione: la Germania doveva purificare il suo sangue. Sono ovviamente interpretazioni e, come tali, sono libere. Poi arriva il giudizio, l’ultimo livello: un razzista dirà che è stata cosa buona, mentre una persona che non si accontenta di risposte così semplicistiche dirà che è stato un fatto abnorme della storia dell’umanità. Allora arriva la condanna. La conoscenza non è mai un fatto oggettivo se non nella prima fase, quando si accertano i dati storici, le evidenze. Oggi, invece, c’è un particolare fanatismo che non vuole confrontarsi con l’oggettività dei fatti e crede che tutto sia interpretabile, anche le cose accertate, accadute.

Lei come vive questo tempo di scredito continuo nei confronti degli intellettuali, questa continua sottolineatura di essere sensibili solo a cose alte, distaccate dalla realtà, celesti per dirla con Socrate nelle pagine dedicate a Talete?

Il maestro da sempre è sgradito all’establishment. Il fascino giusto è quello di guardare le cose con un occhio nuovo, lontano dall’affaticamento, dal conformismo, e oggi questa operazione è poco gradita. La colpa, però, non è solo degli intellettuali. Se uno non viene preso sul serio, è certo che si chiude nelle biblioteche, facendo venire meno la sua funzione sociale. Oggi c’è l’idea solamente del fare, non del conoscere per fare. Ma quel fare, alla fine, è fine a se stesso. I professori oggi non vivono troppo bene.

Molti, ad esempio, l’hanno accusata di essere scomparso dopo il referendum costituzionale del 2016 e di non aver detto nulla sul periodo rovinoso del nostro Paese. Come risponde a questa critica?

All’epoca del referendum costituzionale mi sono espresso su una cosa che era di mia competenza. Oggi non saprei cosa dire che abbia una qualche presa puntuta su quello di cui si discute. Sinceramente sono colpito dall’irrilevanza dell’opinione nel dibattito pubblico: tutto sfugge, nulla rimane.

Nonostante questa polemica, lei è stato ed è un maestro: come ha vissuto questa esperienza?

Io ho cominciato a insegnare nel 1969. Un problema che ho vissuto è stato quello del rapporto con gli studenti: un rapporto di formazione o istruzione? Educazione credo sia una parola sempre rischiosa perché poco rispettosa della libertà. Ho sempre optato per la libertà della formazione, che presuppone che ognuno si informi, si faccia plasmare dalle cose dell’esperienza, dalla nostra storia…

Realmente, però, come si compie il mistero di relazione fra l’allievo e il maestro?

Il mistero si ripete sempre tramite il richiamo del fascino del conoscere. Lo diceva Dante nella sua Commedia nel canto di Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

Un suo maestro, invece, chi è stato?

Le risponderei Primo Levi, che ha scritto tantissime cose belle. Lui è stato un testimone autentico di un certo modo di vedere le cose. Era una personalità colta, mite, non fanatica. Era un uomo davvero fascinoso, mi creda.

Lei l’ha conosciuto. Qual è stata la cosa che più la colpì di Levi?

Mi stupì il suo modo di esserci. Una persona che ha portato su di sé quel dolore tremendo non trasformò mai nulla in maledizione. Ha sempre cercato in sostanza di capire il perché di quella tragedia per poi sostenere un giudizio. Il suo stile fu prezioso: ci ha mostrato delle cose e ha chiesto a noi di giudicare. In profondità c’era la sua opinione, è ovvio; ma quel suo atteggiamento così discreto fu molto onesto: alla fine ci chiese solamente di reagire.

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