«Suonare la musica concentrazionaria significa liberarla da tutti i luoghi infestati dall’odio». Francesco Lotoro e la memoria del canto che salverà il mondo

by Felice Sblendorio

Da più di trent’anni, è l’impegno che fa l’uomo: per Francesco Lotoro, pianista e compositore di Barletta, vita e ricerca musicale non sono più scindibili da tanto tempo. È tutt’uno: la ricerca e la vita, la passione, la famiglia e la musica. Leggendo il diario di viaggio che racconta la sua impresa, “Un canto salverà il mondo” (Feltrinelli, 312 pagine, 20 euro), si percepisce l’imponenza reale del suo progetto. Lotoro, infatti, da tre decenni cerca, raccoglie, recupera e suona la musica composta nei campi di prigionia: di Auschwitz certamente, ma non solo. Il compositore pugliese ha scelto di allargare l’orizzonte e custodire tutta la musica nata in cattività, dai lager tedeschi ai gulag sovietici.

Se Theodor Adorno si chiedeva se fosse stato possibile fare arte dopo Auschwitz, Lotoro risponde con la musica prodotta in quei campi: testimonianza amara, vitale e contraddittoria di quell’odissea. La missione di una vita intera ha significato, per il pianista, aver «restituito dignità a questi musicisti, aver salvato la loro musica, la loro dimensione più bella e affascinante». Aver salvato, in un modo simbolico, la testimonianza della propria esistenza. boncultureha intervistato Francesco Lotoro.

Lotoro, da anni recupera la musica concentrazionaria, prodotta in cattività e sopravvissuta alla deportazione e alla morte. Com’è cominciata questa sua ricerca?

È iniziata nel 1988, anche se dire che cominciò all’epoca – per come la intendo io oggi – non è del tutto esatto. È stata la curiosità e la passione a spingermi e scoprire nuovi repertori. Mi ero diplomato al Conservatorio di Bari, avevo lavorato molto su Bach con il mio maestro Aldo Ciccolini, ma focalizzarmi sulla produzione nei campi aveva un senso, già qualche anno dopo il mio trasferimento da Budapest a Praga, oramai totalizzante. Il confine della mia ricerca, sia temporale che spaziale, anno dopo anno si è allargato, non limitandosi più a una precisa tipologia deportatoria o una specifica tipologia di campo di concentramento, ma a tutta la musica concentrazionaria prodotta dal 1933 al 1953, dunque dall’ascesa del nazionalsocialismo alla fine dello stalinismo sovietico.

Questa musica ha superato prima l’orrore e poi l’oblio. Oggi, però, è qui, fra noi. Quasi un miracolo.

Aver recuperato molto di quel patrimonio e di quelle testimonianze è il vero miracolo. Allargare il range, dallo sterminio dei lager ai gulag staliniani, ha comportato svolgere molte ricerche contemporaneamente. All’inizio di questo lavoro era tutto più difficile: internet non era diffusissimo, non c’erano programmi di scrittura musicali, lo smartphone non esisteva, quindi tutto era più lento, complesso. C’erano molti sopravvissuti, questo è vero, c’erano più protagonisti e testimoni diretti di quelle attività musicali nei campi. Oggi ci aiutano in questo lavoro i figli di quei sopravvissuti e chi ha conservato quel materiale. Nei prossimi anni questo materiale, grazie al sostegno della Regione Puglia e della Città di Barletta, avrà una casa: la Cittadella della Musica Concentrazionaria, un luogo di studio e di memoria che nascerà nelle strutture di un’antica distilleria in disuso a Barletta.

Nel 2017 il docu-film “Maestro” di Alexandre Valenti ha fatto conoscere la sua storia in tutto il mondo. Ora arriva un libro: è un suo primo bilancio?

Il libro ha avuto una gestazione lunga. Non ero e non sono uno scrittore, quindi mi sono approcciato al tema in modo quasi enciclopedico. Quello che si legge nel libro è sia un bilancio che una raccolta dei racconti più significativi di questa esperienza. Dietro, però, c’è uno studio e un lavoro molto denso, analitico. Sto preparando un’enciclopedia, il Thesaurus Musicae Concentrationariae, composto da dodici volumi, in cui oltre alla storia, storiografia, teoretica ed estetica, ci saranno ben seicento partiture. Il libro, quindi, vuole essere una traccia, un diario di viaggio. Ho viaggiato tanto e viaggerò, per ben cento viaggi ancora, incontrando gli ultimi sopravvissuti e recuperando materiale nuovo. In questi anni ho dimostrato che il problema non è cercare le partiture, ma sostenere economicamente e istituzionalmente questi viaggi.

Perché liberare questa musica, come lei scrive, è un traguardo politico e democratico?

Questo lavoro deve portare a qualcosa di più della ricerca. Il musicista si può accontentare della ricerca in sé, ma tutti noi non ci possiamo limitare solamente al lato archeologico o artistico. La riscoperta della letteratura musicale nata nei luoghi della catastrofe umanitaria deve portare a riflessioni che vanno al di là della musica. La bestializzazione della guerra, da cui è nata quella completa disumanizzazione che ha caratterizzato il Novecento, ci deve portare a riflettere su più fronti. Più l’uomo soffre, più centuplica il suo impegno. La musica che ci arriva è un testamento del cuore e dell’intelletto. È una risposta fisiologica dell’uomo a portare tutto a livelli metafisici, a sublimare, a distaccarsi dalla spazialità nella quale è precipitato. Anche nei campi il tempo collassava, svaniva. Ma il tempo della musica non era quello dell’orologio o del calendario: era un tempo immaginario. Un tempo libero dall’odio che serviva per respirare, per ritornare a considerarsi uomini.

La musica, nel profondo, è lo specchio dei sentimenti e dell’animo di ogni compositore. In queste opere c’è qualcosa che riflette la condizione di prigionia?

Non ci sono elementi in comune, ma c’è un continuum della musica nata in cattività. Il musicista, in genere, non canta il lager, non canta il gulag, non mette in musica la prigionia o la deportazione. Il compositore sovverte, capovolge, esorcizza il luogo. È raro trovare musica dalla quale desumere direttamente quel clima di terrore. Il dolore c’è, come c’è la tragedia, ma è implicito nelle partiture. Si può scorgere, ad esempio, nell’accostamento di alcuni strumenti non usuali come sassofono, violino e armonica a bocca che restituiscono una situazione di precarietà. Il dolore quindi esiste, è vero, vivo e bruciante, ma è in filigrana in queste opere. La vita è a rischio, ma l’ingegno in questo flusso musicale non è in pericolo perché viene stimolato e sollecitato dal disagio che prova l’uomo.

Scrive che in cattività «la scrittura musicale si fa scultura». Che significa?

Parlo del mio approccio alle partiture, ai manoscritti. Ho sempre studiato da pubblicazioni, dunque non ho mai avuto fra le mani un manoscritto di Bach o Beethoven. Avere fra le mani i manoscritti dei sopravvissuti, invece, è stato un grande privilegio. Ho notato una scrittura musicale molto materiale, quasi architettonica. Ha dei segni e degli scarabocchi che tradiscono il nervosismo, la paura di non farcela e di non riuscire a trasferire sul foglio tutto quello che serve. I fogli sono arrivati a noi deteriorati. Sono fogli fragilissimi, pronti a spezzarsi.

Come si fa, dal suo punto di vista, a scrivere e produrre musica, dunque bellezza, in luoghi segnati dalla brutalità, dall’odio, dalla morte?

Bisogna accettare il paradosso e conviverci. La situazione dei campi, molto spesso, ha prodotto un’esplosione di musica e di arte. Il campo e la deportazione, infatti, non contraddicono l’animo dell’uomo, ma lo compenetrano. La bellezza e l’orrore potrebbero non spiegarsi l’uno con l’altro, ma fanno parte di qualcosa che deve essere considerato nella sua complessità. Spesso la tragedia e la grande creatività coesistono, come testimonia questa produzione musicale, nonostante l’orrore.

Grazie all’esecuzione queste composizioni ritornano a essere, finalmente, libere.

Sì, suonare questa musica dopo tanto tempo significa, simbolicamente, liberarla dai lager, dai gulag, da tutti i luoghi infestati dall’odio. Sono composizioni che hanno avuto pochissime esecuzioni ed è giusto suonarle e ascoltarle anche solo per un’unica esecuzione o registrazione discografica. Ma questo non è l’obiettivo principale del mio lavoro.

Qual è, allora?

Per liberare davvero questa musica bisogna continuare a studiarla. È un processo educativo e simbolico più lento. Deve interagire con altre realtà, fra cui i Conservatori e le Università, ma è importantissimo continuare a studiare e analizzare questa immensa produzione. Solamente così questa musica non potrà mai essere dimenticata. Da anni combatto per un corso di letteratura musicale concentrazionaria. È già tutto pronto, ma non ha mai trovato casa in nessuna Università. Bisognerebbe condividere questo lavoro.

Questa musica riuscirà mai a liberarsi dal fardello di dolore che porta con sé?

Credo di no. Sarebbe molto bello suonare questa musica dimenticando il suo passato e i suoi luoghi. Sono elementi che, dal punto di vista estetico, non aggiungono nulla all’ascolto. Nonostante non riuscirà mai a liberarsi da quel male, ci dobbiamo sforzare a considerarla semplicemente come musica. L’obiettivo, sperando un giorno di dimenticare l’etichetta “concentrazionaria”, è quello di restituire a questa musica una normalità. Non bisogna annullare la sua eccezionalità, perché di eccezionale o di tragico ne ha da vendere, ma bisogna recuperare e accostare a questo portato tragico una sua nuova normalità.

Questo impegno ha cambiato la sua vita?

Sì, ha disegnato e cambiato la mia vita. All’inizio non sapevo dove mi avrebbe portato questo impegno. Oggi, nonostante le contraddizioni e le ansie della vita, quando faccio questa ricerca tutto diventa chiaro, logico, cristallino. Dal 2004, poi, mi sono convertito all’ebraismo. L’essere ebreo e musicista sono due stampelle enormi nella mia vita. Quando una comincia a scricchiolare, l’altra mi sorregge. Il punto di arrivo di questo lavoro sarà quello di condividere con gli altri questo immenso patrimonio. La condivisione è l’insegnamento più grande dei sopravvissuti. La loro generosità è diventata la mia.

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