Zerocalcare e i suoi “Scheletri” dolenti di Rebibbia

by Giammarco Di Biase

E’ difficile tutt’oggi rilegare il fumetto di “Zerocalcare personaggio” in etichette e categorie. Difficile meno sicuramente del polemizzare o sperare in qualche sorta di identikit “culturale” del Zerocalcare “autore”. Se per “culturale” significa modellare un certo sguardo, scrivere e creare in modo diverso, in questa maniera e in quest’altra, ma soprattutto essere visti in quel modo dalla critica e non in quell’altro. Qual è il posto predefinito di un autore? Realismo, post neorealismo, cantore del Bel Paese. Forse, il problema di essere autori in Italia è di fuggire sempre da un’ulteriore complessità. Egli stesso, quindi, non si definisce neanche un “intellettuale”, dopo l’ultimo scontro con L’Espresso che in copertina aveva riportato la foto di Michele Rech, cresciuto prima in Francia, paese d’origine della madre e poi trasferitosi a Roma nel quartiere residenziale di Rebibbia.

Il mondo di Zerocalcare sfugge sempre a qualsiasi omologazione radical chic, se per “borghese” sembra esserci qualche intrinseca assonanza con “intellettuale”. “Scheletri” ad esempio, è profondamente radicato nel microcosmo che racconta. Non la Roma culturale, radicata nell’immaginario “alto”, “critico”e universale della città eterna, bensì il “piccolo universo” di un quartiere residenziale e di periferia, che a sua volta diventa anche la storia di una generazione e dell’Italia degli ultimi trent’anni, ma mai il contrario.

“Scheletri” è l’ultimo fumetto di Zerocalcare, edito dalla Bao Publishing, dopo l’ultima sua più vasta opera “Macerie prime” del 2017 divisa in due parti. Zero ogni mattina dice alla madre che va all’università, ma in realtà passa cinque ore seduto in metropolitana, facendo così conoscenza con Arloc, un ragazzo un poco più piccolo di lui che ha altri motivi per voler perdere le sue giornate in un vagone della metro B di Roma. Man mano che la loro amicizia si fa più profonda, le ombre nella vita e nella psiche di Arloc si fondono con le tenebre del mondo dello spaccio di droga della periferia di Roma.

Zerocalcare non è quell’autore che si pone e impone in un certo modo, diventato “personaggio mediatico” più per come lo si vuole apostrofare che per reale appartenenza: è un ragazzo dimesso con una sua individualità e i suoi demoni prima di essere un autore intransigente. Ha sempre raccontato il disincanto di una generazione che ha vissuto il famoso “Big chill”, il grande freddo, ha sempre raccontato di trentenni che hanno combattuto per riuscire ad avere un posto, anche il più effimero nella società. Lungi dall’essere semplice retorica, straccio della più inerme cronaca, anzi sembra proprio combatterla nelle pagine quella didascalia sociale, quel virgolettato posto al margine di un testo implicito.

Se in “Macerie prime” raccontava in due parti la complessità dei rapporti di un gruppo, tra cui “Secco”, il suo migliore amico, il suo punto debole tra ironia e tenerezza, reclusi prima e dopo anche dopo il tempo del disincanto nei loro bellissimi e amari sogni, in “Scheletri” sembra aprire la storia a quelle che sono le debolezze di fumettista, quel compromesso che ha sempre disegnato e sceneggiato tra l’essere vittima della sua vita, e vittima pubblica di un Paese che l’ha sempre standardizzato come “fatto” “metafora ideale artistica” di un’Italia che non si supera, ma anzi che regredisce. Ma piuttosto “Scheletri” racconta qualcosa che non c’era mai stato prima nella fumettistica di Michele Rech, e cioè la fine ultima di un sogno. Un sogno che ormai ha le impronte cangianti su uno scheletro e che non legato più neanche al suo fantasma, che chissà dove è partito, chissà che viaggio ha intrapreso. L’ultimo Zerocalcare è un ritratto che cancella le sue scelte lessicali nelle immagini, nei quadranti, che traccia esistenze che purtroppo, ad oggi, rimangono vittime delle loro scelte, e che si rinchiudo in armadi come silhouette senza vita, già morte.  Non c’è futuro nel fumetto di Zerocalcare, c’è sempre posto per la squisitezza e l’ironia, il suo alternare personaggi in carne e ossa a madri galline, raffigurare gli alter ego come armadilli. Non c’è più respiro nella contaminazione creativa di raccontare nuove strade da intraprendere. Anche la droga, le bombe carta, tutte miscele e iperbole figurative e letterarie per creare una escalation narrativa e immortalare la risata, anche i personaggi che vengono dalla fantasia, i nani di Biancaneve sono proletari, chi disoccupati, chi vivi tra una botta  e un’altra. Il progresso diventa un fatto di cronaca nera, la morte di un eroinomane, la vita si ripete, nello sguardo solo di una bambina, figlia del più grande Arloc rincontrato dopo anni. La fantasia che si pone sempre tra i personaggi, i riferimenti “intellettuali”si spingono tra loro, non fanno più sostegno, non fanno parte della serenità di un creatore, ma diventano umani e sciagurati segni di sfogo di una decadenza.

Il processo di Zerocalcare merita attenzione, perché Zerocalcare è unico al mondo, come ha dimostrato in “Kobane Calling”. Nessun fumetto è uguale ad un altro e tutti sono un processo, sì autoriale, ma a cui non è concesso l’intercalare di opera “intellettuale”, perché Zerocalcare è un “intelligente pieno di demoni”, scherza con la sua arte, la sporca, la rende materiale semplice eppure brillante, tra un “accollo” e un epiteto che schizza come un aforisma. Zerocalcare è fumetto e basta, l’eccezione più spicciola e vera, finalmente, della parola e di quella parte di arte in cui è unico, autenticamente umano e difettoso.

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