Le parole per dirlo

by Massimo Fragassi

Il vento di maestrale declinò sulla pianura, sgranando dal filare un cumulo di cirri arrampicati all’orizzonte. Sospinto dalla brezza, lo strascico d’argento calò a saracinesca sulle case, specchiandosi nei vetri bagnati di silenzio e temporale.

La prima goccia picchiò sulla lastra all’improvviso, poi si allargò e, cadendo, attraversò la finestra, lentamente. La seconda la incalzò di lì a poco, confondendosi con lei in un rivolo veloce di nuvole e rugiada. Poi ne cadde un’altra e un’altra ancora, e fu la pioggia.

A volte capita e non c’è una ragione. Un giorno, per caso, un dio distratto e annoiato raccoglie il tuo fiore tra mille altri gambi e soffiando lo sfoglia, lasciando che il vento disegni nell’aria percorsi incoerenti di fughe e colori. Allora, cadendo, ciascuno di quei petali diventa un tuffo al cuore, quel rumore sordo e delicato che fanno i sentimenti quando dall’oblio vedono la luce.

Successe anche a noi e lo chiamammo “Amore”, poiché certe parole, per quanto abusate, non hanno bisogno di una spiegazione: il primo battito pulsa nel cuore, e muta i destini e cambia le persone con la leggerezza della neve che cade.

Così, all’improvviso, le donai la mia vita, senza cercare una ragione migliore che seguire il mio cuore ai confini del mondo che prima di lei avevo conosciuto, perché ogni uomo ha diritto a una promessa e la mia, la sorte, l’aveva mantenuta: lei era amante e sorella, madre e compagna, era il senso e la speranza, l’attesa e il destino, lei era tutto e il necessario…perché allora non l’amavo, non più?

Un bagliore oltre il vetro interruppe i pensieri, poi un boato aspro e secco e il silenzio tornò a invadere la stanza.

Seduto accanto al letto, respiravo il calore del suo corpo, cercando in lei, sulla sua pelle, una risposta a quel che ancora non capivo. Il braccio destro, piegato sotto il cuscino, le inarcava la spalla rivolta alla finestra e quando, nel sonno, quello sinistro trovò la stessa posizione ebbi per un attimo il timore che dagli íncavi scoperti si spiegasse un paio d’ali, perdendola per sempre in quell’ultimo volo.

Lei era il senso. Lei era un dono. Eppure non l’amavo.

Quando finisce l’amore è come spegnere una luce: il mondo esiste ancora, ma tu non lo vedi. E non vedi nemmeno te stesso. Perso e confuso nel momento stesso in cui hai trovato un senso alla tua decisione, poiché quando finisce l’amore non c’è scampo: devi andare.

Ti ripeti che la vita è un gioco di colori in cui vince chi ha il coraggio della felicità. A ogni costo. Lo hai capito, lo hai accettato, hai deciso. Eppure tutto, intorno a te, è in bianco e nero. Tutto, dentro te, è bianco o nero. Da una parte ciò che devi – e le devi – dall’altra ciò che puoi (quel che vuoi) e in mezzo tu, solo, per la prima volta. Equidistante dal dolore, dai dubbi, dalla colpa.

E allora ti fai forza (“devi farlo, devi farlo, devi farlo”) e impugni la tua scelta come fosse una lama, squarciando la vita in un prima e in un dopo. A occhi chiusi, senza respiro, perché quel taglio è la tua sola certezza, e più è reciso lo strappo e più ti senti forte, che se non guardi fa meno male. Ma la domanda rimbomba nella testa – perché non l’amo?, ti ripeti, perché non l’amo? – e quel tarlo fa eco nel tuo cuore, bussando alla sua porta con l’invadenza del postino “che prima o poi qualcuno apre”.

Io lo conosco, quel dolore.

Eravamo foglie di uno stesso ramo, e di quel legno condividevamo linfa e radici. Esposti al vento e al sole, compagni d’armi nella stessa trincea, guardavamo il mondo dall’alto, senza paura, saldi e resilienti di una forza comune e reciproca: lei era il mio riparo, io ero la sua ombra, e questo ci bastava.

Dicono che la felicità sia un anelito effimero, precario, poiché tutto è mutevole e tutto fugge. Ma la nostra l’avevamo conquistata e difesa e temprata. Come un verso di Neruda, come un abbraccio, come mai avrei sperato…perché allora non l’amavo, non più?

Ci sono risposte che valgono una vita, nella cui attesa consumi il tuo tempo. E fingi e soffri e rimandi finché un giorno, per caso, ti scopri a specchiarti in una vetrina.

Non i capelli, non i vestiti, non quella giacca che “prima di uscire e invece ora boh”. I tuoi occhi. Ti colpiscono i tuoi occhi. Il vetro è opaco dei pastelli che smerigliano il tramonto, ma tu non ci pensi, ché così bene non avevi mai visto. E mentre il mondo mareggia alle tue spalle, il riflesso dello sguardo si fa contorno, lentamente, finché tutto d’improvviso appare chiaro, frustrante, come solo sa la guerra che non fa prigionieri.

Eravamo, e questo è quanto. Poiché non sempre e non per tutto esiste una ragione.

L’ultima goccia batté sull’imposta mentre un raggio di sole irradiava la stanza, poi giunse la brezza e spalancò la finestra, gonfiando la tenda adagiata sull’anta.

«Buongiorno amore mio, stanotte ti ho sognato», soffiò al suo risveglio, cercando la mia mano.

Io le sorrisi e ricambiai il suo bacio, poi mi decisi, per non farle più male: «Buongiorno amore, ti devo parlare…».

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