Le favole scorrette, feroci e “fimmini” di Emma Dante: «Il coraggio rende giustizia alla bellezza»

by Felice Sblendorio

Poche cose fermano una conversazione pirotecnica con Emma Dante. In questo dialogo succede una volta, di getto: “Piove! A Palermo sta diluviando: quando piove mi inquieto”. Poi il flusso riparte. Racconta le sue ossessioni e il suo teatro, le sue donne e le sue favole. Da poco, questa regista carnale e geniale ha pubblicato “E tutte vissero felici e contente” (La Nave di Teseo, 240 pagine, 22 euro), una raccolta di quattro favole – illustrate da Maria Cristina Costa – destrutturate e attualizzate. C’è Cappuccetto Rosso che si sdoppia, la goffa competizione delle sorellastre di Cenerentola, Rosaspina salvata dall’amore di una principessa, Biancaneve ingenua consolata da sette nani mutilati sul lavoro. bonculture ha intervistato Emma Dante.

Felici e contente, partirei da qui.

È innanzitutto una rivisitazione, una rilettura in chiave grottesca. Questo libro, che mi ha molto divertita nella stesura, è nato in teatro. Le fiabe che ho trascritto sono state soprattutto rivisitate in scena. Hanno un’origine carnale perchè i personaggi sono stati indagati prima sul palcoscenico, e poi nella pagina scritta.

Ancora i corpi, così centrali nella sua pratica teatrale. Nella messa in scena come nascono queste favole?

Io me lo sono dimenticato come si mettono in scena le cose, partiamo da questo sconfortante presupposto. Mi sono dimenticata come si fa il teatro, considerando la loro totale chiusura da un anno. Una scelta rischiosa, perchè senza questi luoghi d’arte, in cui sfoghiamo e risolviamo tutte le nostre frustrazioni, il rischio è l’esaltazione della violenza. Normalmente io lavoro molto sui corpi, sullo spazio, sul ritmo. La favola rappresenta un territorio d’indagine interessante perchè è un groviglio di archetipi, di regole epiche che vanno riviste e rese scorrette rispetto al processo di edulcorazione che viene operato nelle favole raccontate ai bambini. I bambini sono in grado di accettare la scorrettezze e la sconcezza che le favole raccontano. Solo in questa maniera si può conoscere la vita.

Sembra che lei, anche a teatro, abbia realizzato solamente favole. Forse favole nere, ma favole. È così?

Sì, anche quando faccio il cinema metto in scena delle favole. Ho sempre l’esigenza di vedere le cose da un lato anche magico. Imposto qualcosa di realistico che viene continuamente bagnato da una pioggia, da una polverina magica. È un connubio fra il realismo più bieco, duro ed estremo e qualcosa di magico che lo rende accettabile, sopportabile. Questa possibilità è importantissima, soprattutto perchè io racconto storie di emarginazione, disagio, disperazione…

Elena Stancanelli nel suo «Bestiario Teatrale» ha scritto che lei ritrova il suo teatro nella spazzatura.

È vero. Pesco le storie e le cose dalla spazzatura. Le dico una cosa un po’ privata: a Palermo ho uno spazio teatrale indipendente che si chiama “La Vicaria”. In questo scantinato ci sono delle stanze in cui conserviamo costumi appartenuti a qualcuno che non c’è più. “La Vicaria” è una specie di cimitero in cui le cose che vengono buttate o dimenticate ritrovano una loro funzione attraverso il teatro.

Anche nella casa delle Sorelle Macaluso, il suo ultimo film, gli oggetti sono gli ultimi superstiti di un dramma familiare. È ossessionata dalle cose che ci sopravvivono?

Ossessionata dagli oggetti, dai vestiti, dalle cose che sono appartenute a qualcuno, che sono state scaldate dal calore di qualcuno e che improvvisamente si ritrovano senza proprietario e senza cuore. Mi chiedo sempre: dove vanno a finire gli oggetti che ci sopravvivono? Che fine fanno? Ieri ho accompagnato mio figlio a lezione di psicomotricità in una piscina e lì c’era una vetrata piena di coppe gigantesche, tutte d’argento. Mi sono chiesta: a chi serviranno tutte queste coppe? Dove andranno? Chissà.

Che favola è la vita?

La vita è una favola composta da molte favole, non è mai una soltanto. È una specie di mille e una notte, un racconto dentro altri racconti. La vita di una persona non può avere una trama soltanto. Perchè siamo, come diceva Pirandello, sempre uno, nessuno e centomila nell’arco della nostra esistenza.

Lei, infatti, non ama le trame.  

Definire qualcosa, o la vita di qualcuno, con un inizio o una fine equivale a ucciderlo. Siccome per me i personaggi devono sempre essere vivi, per loro cerco continuamente di tenere aperte tutte le finestre, tutte le infinite possibilità. Non c’è una trama specifica per i miei personaggi. La vita è una somma di parentesi, un miracolo di racconti, e di altri racconti ancora.

Le favole sopravvivono al tempo se sono feroci?

Bisogna fare di tutto per conservare quella ferocia. Le favole sono spudorate, ferocemente vere. Anche se appartengono a mondi fantastici, raccontano qualcosa di unico: la vita. Attraverso la favola si racconta ai bambini come va impostata la vita sociale. La favola insegna una morale quando è feroce, quando resta feroce.

Anche il linguaggio che utilizza è crudo, diretto, aspro. Cosa svela il dialetto?

L’intimità: il dialetto ha a che fare con l’intimo, si bisbiglia all’orecchio, è la lingua dei sentimenti primitivi. Il siciliano è la lingua di casa mia, di quella stanza tutta per me.

Non rinuncia alla scorrettezza. Perchè non ha paura dell’indecenza, della volgarità, del taglio storto sull’esistenza?

Perchè avvicinano. La scorrettezza e la volgarità ci avvicinano alle storie perchè fanno parte della nostra vita. Non si deve aver paura di inquietare qualcuno. La costruzione magica e creativa di una storia deve sempre poter sconfinare in qualcosa di tremendo. Sennò non si avvicina agli esseri umani e diventa una cosa in costume, finta. Io non faccio mai teatro in costume, non ce la potrei mai fare: diventerei un’idiota. Io devo parlare di quello che ho vicino a me, dell’oggi e, attraverso il racconto del contemporaneo, sfondare le porte del futuro riconnettendomi con il passato. Non posso guardare solamente indietro, devo avere una connessione. “Le Sorelle Macaluso” racconta quest’esplosione temporale qui, questo tempo inquieto che non si cura della morte.

La morte, eccola. Nonostante sia presente in quasi tutte le favole, da adulti disimpariamo presto questa prossimità, questo pericolo. La pandemia ce l’ha fatta riscoprire? 

È stata una morte virtuale quella che abbiamo avuto attorno a noi. La morte è anche il corpo che si ferma: non è un concetto teorico. Il fatto di non aver potuto stringere le mani dei corpi che sono andati via è stata una cosa tremenda. Un corpo morto non è più niente, ma è una specie di punto necessario per collocare la morte da qualche parte e farci intimamente pace. La morte virtuale è una cosa che non mi interessa perchè non ci aiuta veramente a comprendere la vita. A teatro, infatti, incarniamo la morte nei corpi.

Valeria Parrella ha detto del suo teatro: «La bellezza prima dell’etica in modo da poterla fondare». Quando il teatro riesce a fondare un’etica?

Quando fa un atto coraggioso: fino in fondo, senza preoccuparsi di essere corretto di fronte a chi lo guarda. Quando il teatro se ne fotte dello sguardo dello spettatore e va avanti senza peli sulla lingua fa il suo mestiere. Il coraggio rende giustizia alla bellezza.

Il coraggio le ha fatto cambiare il finale della Bella Addormentata: l’amore che la salverà è quello di una principessa. Il teatro combatte i pregiudizi?

Sì, e non mi preoccupo mai dello sguardo del giudice. Per me l’arte non ha a che fare con i processi giudiziari o sociali, ma solamente con i processi creativi. Che sono la cosa più illegale al mondo. L’arte è un processo illegale e deve rimanere tale. Per questo esiste. Da un lato c’è la giustizia, dall’altro c’è l’arte e la possibilità – nel rispetto – di fare tutto. La messa in scena è tutelata da tutta la nostra possibilità espressiva.

Anche in queste storie gli archetipi familiari sono centrali. Che cos’è la famiglia che continua a rappresentare?

Continua a essere uno scannatoio. Non è solamente un posto gioioso dove si trova rifugio, ma è anche un luogo tremendo in cui ci si scanna, ci si fa del male, c’è la prevaricazione del potere più forte sul più debole. C’è la gerarchia genitoriale, lo sguardo delle sorelle e dei fratelli. La famiglia genera quasi sempre relazioni pericolose, nocive.

Le sorellastre di Cenerentola, come le Macaluso, condannano con lo sguardo. Bisogna sempre tradire lo sguardo della propria famiglia per salvarsi?

Quello è fondamentale. Lo sguardo della famiglia deve prendere commiato, deve salutare, andare via, non fare più visita. Alcune volte rimane imperterrito e devasta la personalità di chi, invece, avrebbe bisogno di non avere più quello sguardo addosso. Io, da siciliana, penso sempre alla madre e ai suoi figli che non riescono ad abbandonarla. Penso agli uomini adulti che ritornano dalla madre, da grandi. Questo è un rapporto malato perchè lo sguardo deve dire addio, deve salutare. Deve dire: ci siamo guardati abbastanza, ora emancipiamoci.

Si concentra molto sulle storture materne: la madre di Cappuccetto Rosso, la matrigna di Cenerentola, quella di Rosaspina. Il legame materno è un mistero?

È una fortezza. Poi dipende: ci sono madri che non hanno la vocazione materna e riescono a essere delle grandi amiche. Ci sono madri-non madri, ma amiche: sono molto interessanti. La mamma di Cappuccetto Russo non è una madre, ma una signora vamp che si trastulla con i suoi gioielli e aperitivi. Quando la vocazione materna è troppo presente, però, è un problema: prende il sopravvento, soffoca.

Che cosa rende tale una madre?

Soprattutto il corpo. La questione del corpo materno per me è molto importante. Io ho un figlio che non ho partorito, ma quando ci abbracciamo succede qualcosa di inspiegabile. È un rapporto forte, un’esplosione di sensi. Il corpo c’è, anche se non è quello che partorisce. Il corpo è il veicolo della trasmissione materna. Alla fine, credo che la madre sia sempre la prima donna di suo figlio.

Nelle note di regia di “Misericordia”, il suo ultimo spettacolo teatrale, cita Sanguineti: «Femmina penso, se penso l’umano». È il suo pensiero sul mondo?

Sì, il mio umano è donna.

Tutte le protagoniste non hanno bisogno di principi. La salvezza è un atto di autodeterminazione?

La salvezza è una necessità per continuare a sopravvivere. Non necessariamente si ottiene con l’arrivo di un principe. Le donne riescono a salvarsi da sole: questo è il motivo per cui il titolo è declinato al femminile. È una fine che non esiste in nessuna favola del mondo: la frase è sempre al maschile. Sempre.

In questo libro ha eliminato il lieto fine. I cattivi verranno puniti, afferma la fata di Cenerentola. I buoni non perdonano più?

Lo possono fare, ma sono stanchi. Il perdono dei cattivi deve essere un’esperienza, un processo di riabilitazione.

Ma in questo processo non serve un po’ di pietà? Questi mostri cattivi, come nell’antichità, non sono anche figure prodigiose, miracolose?

I mostri sono compagni di viaggio. Però non mi va che la matrigna di Cenerentola venga perdonata e vada subito a vivere nel palazzo. Serve un minimo di empatia per potersi pentire di quel male commesso. Loro non lo chiedono neppure il perdono, lo ottengono a prescindere. È un’ingiustizia totale. Non la posso accettare!

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