«La mia donna bonsai ha sempre cercato il nascondiglio». Un dialogo con Elisa Ruotolo

by Giammarco Di Biase

Non c’è né inizio né fine nelle parole di Elisa Ruotolo. Certo, quando la si ha davanti, le si parla con apprensione e forsennata attitudine alle continue domande propostele. Le sue risposte? Un continuo andare a capo, un continuo esercitare punteggiatura. Quando le si parla senti silenzio, leggiadria, incanto. La sua quiete sembra fuoriuscita da una dolce novella o da una leggenda di pace e guerra senza armi, ma tutta nel cuore e nello stomaco.

Il suo libro ultimo, Quel luogo a me proibito, è la storia di una donna- prima bambina, dopo, un po’ con disincanto, più adulta- è la storia di una donna che vuole “essere messa a conoscenza”, un’epopea dell’animo breve e salda dove Elisa, il suo personaggio tra realtà e finzione, vuole scoprire quel luogo, che è la vita (che non basta viverla per conoscerla) in cui lei non ha mai infilato unghie, bocca, stomaco.

Quella vita fatta di amore, quella vita sbucciata da bambina sull’asfalto, quel pungersi le orecchie per vanità e per essere donne precocemente, atteggiandosi con gli orecchini. Quella vita brusca, un po’ come i bambini di Niccolò Ammaniti: nascono scalzi, nascono violenti e non perdonano, molesti come la forza dell’amore e della passione, quei bambini di Come Dio Comanda, Anna e Io non ho paura.

L’infanzia di Elisa Ruotolo non è un’infanzia dove sei turpe, sconsiderato, bellicoso. L’infanzia che ha sempre narrato Elisa Ruotolo è un’infanzia precaria, fuori e dentro, è un’infanzia dove non ci si scosta mai dalla finestra, dove si aspetta sempre un arrivo in porto, dove si seguono sempre gli stessi passi dietro le porte, passando per le stesse stanze vuote. E’ piena di topoi letterari la narrazione della Ruotolo, lei vorrebbe, come dice in quest’intervista, “scrivere sempre la sua opera prima”.

Elisa, domandandole da dove ha iniziato- come ha fatto ad iniziare-, con i passi attenti ed emozionati di chi è dall’altra parte a intervistarla, non parla mai di carriera. Lei sembra essere uscita direttamente da un punto saliente di una lettura classica. Ricorda in maniera legittima, per tutti i piccoli passi e le piccole parole che usa, uno scambio curato ed epistolare, una donna che aspetta ancora il suo uomo, il suo amore. Come sembrava leggendola all’inizio, sembra adesso: un’eroina di Ovidio.

La mia letteratura di riferimento è quella con cui sono cresciuta, il mio autore preferito è Fedor Dostoevskij. L’Idiota, i fratelli Karamazov, Memorie dal sottosuolo, sono ancora indecisa di quale sia il mio preferito! Ho sempre avuto paura di questa mia attitudine ai romanzi russi, paura di dover fare i conti con loro che mi avevano sempre aiutato a crescere, la paura di dover pesare la mia scrittura con dei livelli così alti. Ogni volta che scrivo cerco sempre di ripartire da zero, per non farmi sommergere dall’ombra di una supponente e irrichiesta maturità artistica- più per gli altri che per me- come se scrivere comportasse sempre più responsabilità non per se stessi ma per chi ti legge e per chi ti pubblica. Ho paura del mio crescere costante, ho paura del tempo che passa. E’ per questo che le mie opere si rassomigliano, ma sono nettamente diverse tra loro. Vorrei che ogni mia opera fosse un’opera prima per non cadere nel tranello di questa professione, per non essere tentati dalla celebrità, dall’arte che si trasforma in notorietà e in un lavoro sgradevole che non mi appartiene come persona. Quando scrivo qualcosa non scrivo per poter mangiare. Penso che potrebbe arrivare in qualsiasi momento un giorno in cui non avrò più voglia di scrivere o sarò stanca, e lo abbraccerò con tutta me stessa. Non ci è dato sapere quale sarà la nostra ultima opera e quanti saranno i prossimi scritti”.

Prima di Quel luogo a me proibito edito da Feltrinelli, Elisa scrive Corpo di Pane, pubblicato con Nottetempo, una raccolta di poesie che molti lettori e critici hanno accostato ad Antonia Pozzi. A proposito della poesia discutiamo sulle sue opere precedenti e sul modo che ci induce a scrivere in modi diversi, in diversi periodi della nostra vita. Inizia parlando delle sue poesie per poi regalarci una chicca: il suo progetto futuro sarà un ritorno ai versi, dopo un periodo dedito alla prosa.

Ho scritto Corpo di Pane in un periodo molto doloroso della mia vita. Ho scritto poesia, un procedere continuo in avanti andando a capo, perché non riuscivo a continuare il verso. Era un periodo difficile, spezzavo le frasi costantemente, non avevo la forza di continuarle. E’ da qui che nasce quest’opera, dalla paura di procedere con le parole a lungo termine. Volevo continue conclusioni, aumentavano battiti e sussulti e andavo a capo. La poesia aveva il ritmo del mio corpo, del mio animo angosciato. Scrivendo Quel luogo a me proibito ho incontrato lo stesso interesse per la brevità, ma qui ci ho messo tutta me stessa procurandomi pazienza in un periodo molto più sereno della mia vita. Questa mia opera, come quelle poesie, non ha un inizio e una fine emblematici e furbi. Lo dico senza presunzione: le mie opere non sono fatte per accontentare il pubblico.

Il libro di Elisa Ruotolo non si inserisce perfettamente nel contesto odierno delle letture concilianti. Alcuni ne parlano come di un’opera propulsiva, stordente, repulsiva, nessuno ne parla in maniera del tutto conciliante. E’ come se qui mancasse la posologia del dolore e dell’amore di Corpo di Pane, e Quel luogo a me proibito sembrasse a tutti gli effetti una “finta opera prima” che non ha misura di somministrazione o medicamento. E’ tutto così schietto, sincero, seppur di una compostezza dura e dilaniante. Un dialogo tutto interno sulla potenza e l’assimilazione del cambiamento, con un’estrema cura per gli spazi, il tempo della poesia e il verbo della parola. Alcuni la definiscono un’opera addirittura asettica!

Mi accorgo delle mie intenzioni solo dopo aver scritto passi del mio libro. Ho la sensazione di arrivarci dopo, che le parole conquistino le dita e la tastiera prima della mia mente. Non amo risvolti che sconfinano in rivoluzione: un cambiamento posto nella vita è lento, ha bisogno di essere assimilato. Non esiste chi cambia da un giorno all’altro, esistono piccoli passi che attecchiscono speranza. Le grandi opere non hanno un inizio o una fine, passano attraverso la vita e te ne parlano in maniera esclusiva, mai perenne. Il mio libro vuole essere questo: attraversare una vita con incanto e insieme disincanto, senza per forza passare per la risoluzione e il colpo di scena finale.

Nel libro, la protagonista cambia fretta e passi, incontrando un uomo chiamato Andrea. Cambia vita, istintivamente la ridimensiona violentemente, con risvolti non per forza positivi. Se ne innamora, vuole conoscere il sesso e l’amore attraverso di lui. Ha bisogno della stessa violenza di cui è stata lastricata la sua infanzia, violenza non per forza attribuibile al proprio nido familiare, ma a quei nodi interni connaturati in noi tutti. Violenza, che per l’ennesima volta deresponsabilizza, non ammette sensi di colpa. Così nasce e finisce un rapporto importante, senza posologia, ma con tanto fervore e gesti sbagliati.

Cos’è Andrea per la protagonista, questa donna bonsai di cui tutti parlano?

La mia donna bonsai ha sempre cercato il nascondiglio, voleva scomparire. Voleva soffrire poco e non dover scegliere, mantenere ferma la sua morale. Solo dopo ho capito che era una donna morale forse più nell’esperienza con Andrea, nelle prove che sì, disattendeva ma che elemosinavano cambiamento. Andrea è vita vissuta, essere presenti a se stesse, non disattendere l’attenzione per se stesse, conoscere se stesse e soprattutto non deresponsabilizzarsi ancora e per sempre. Nel libro uso parole e concetti forti: ad un certo punto dico di voler essere mangiata, violentata. Sono tutti segni accusati dalla coscienza della mia donna bonsai che non voleva sbagliare, non voleva tentare, non sapeva amare e quindi si rendeva vittima degli altri, senza scegliere e partecipare. Voleva rimanere innocente non conoscendo realmente l’infanzia e la bambina dentro di sé perché non aveva conosciuto – nel rispetto severo – la felicità. Semplicemente non voleva sporcarsi, ma essere innocenti non significa non cadere, non sbucciarsi le ginocchia, non sporcarsi di passione e fervore.

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