L’esultante Urbano, Pippo e gli uomini a una dimensione

by Enrico Ciccarelli

Alcuni decenni fa Silvio Berlusconi, non ancora entrato in politica ma già potentissimo editore, si recò alla sede del Giornale (formalmente di proprietà del fratello Paolo) per parlare del momento non facile dei conti aziendali con i giornalisti.

Il Cavaliere “dimenticò” di avvisare l’assente Indro Montanelli, fondatore e direttore della testata, che appena lo apprese si premurò di chiamare il suo editore e dirgli “Dica a suo fratello che se la cosa dovesse ripetersi lo farò mettere alla porta”.  Inutile dire che Silvio, come Paganini, non ripeté.

Chissà se Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, avrà avuto contezza dell’esempio del suo titanico collega. Di sicuro, almeno in pubblico, non ha fatto un fiato, in risposta al surreale video in cui Urbano Cairo, suo editore, dice ai venditori della sua rete pubblicitaria: “Vado al Corriere a chiudere (nel senso di mandare in tipografia, ndr) nel migliore dei modi il giornale insieme a Fontana. Lo fa lui, ma io gli sto vicino”.

Ma tralasciamo le singolari assistenze morali (speriamo) di cui si avvale il direttore del più grande quotidiano italiano. Torniamo a guardare al polimorfo Cairo e alla sua esibizione in videostreaming.

L’uomo ha fiuto per gli affari, e mentre il mondo si interroga sulla possibile recessione planetaria, sullo scenario di macerie e rovine che la pandemia fa intravvedere, egli va contro corrente. Non trattiene l’entusiasmo per il “magnifico momento” che ci troviamo a vivere. I fatturati vanno bene, la crescita di ascolti della 7 (che possiede insieme a Rcs) e il prestigio del Corriere della Sera macinano inserzionisti e campagne pubblicitarie.

Perché? Perché c’è voglia di spendere, dice il tycoon, malgrado la stragrande maggioranza degli esercizi commerciali d’Italia sia chiusa. Non potendo dire, come il suo modello Berlusconi, che pizzerie e agenzie viaggi sono piene, l’esultante Urbano racconta dell’episodio narratogli da sua figlia, secondo la quale un uomo in farmacia ha comprato a sua moglie (“una bella donna”, ça va sans dire) trecento euro di cosmetici.

D’altronde, il patron della Segafredo, da lui (Cairo) contattato mentre si trova (il patron) in Polinesia è pronto a investire molte risorse per promuovere il brand. Lo sportello contratti del Gruppo Cairo fa fatica a mantenere il distanziamento, tale è la folla di inserzionisti che vuole, fortissimamente vuole premere sull’acceleratore della pubblicità e dei consumi.

È raccapricciante? Sì, molto; e non solo per la totale inopportunità dei toni e dei contenuti (che invano Cairo cercherà di mitigare con un altro video tristanzuolo e ipocrita), e nemmeno soltanto per il terribile nesso fra una informazione esagitata, terroristica e tutta fiele (di cui Massimo Giletti e la sua Arena sono eroi eponimi) e la corsa a fare i dané proponendo i dubbi paradisi del consumismo.

No, a sconcertare e spaventare è il vedere uno degli uomini più potenti d’Italia che non solo ha i modi insulsi e patetici di un imbonitore da fiera, ma è palesemente astratto e alienato dal mondo, incapace di una qualsiasi visione o considerazione che vada oltre il piccolo e meschino perimetro dei suoi interessi.

È un grande momento perché i fatturati corrono. Che importa se corrono in un deserto di speranze, che importa se corrono sull’ansia, la prostrazione, la tragedia di un popolo? Un popolo di cui Urbano Cairo non solo se ne frega (e vabbé) ma che non conosce proprio. Il suo mondo è fatto di direttori e conduttori “non ostili”, di agenti dinamici e con il pelo sullo stomaco, di capitani d’industria che parlano d’affari (immaginiamo con quale tedio) da un qualche yacht al largo degli atolli incantati.

Non è con noi, non sa di noi. Col cuore a forma di salvadanaio (cit.) gli interessiamo come fattore della produzione; null’altro. Badate, non è una proiezione terzomillenniale del Padrone delle Ferriere, non viene da Germinale o dai Malavoglia. È alienazione di altro tipo.

La stessa, temo, che ha colpito Pippo Inzaghi, un dì formidabile puntero e rapace d’area, oggi allenatore del Benevento, che comprensibilmente si duole che la sua squadra sia privata della meritatissima promozione in serie A dalla mancata conclusione del campionato cadetto. Il problema è che, se la situazione mondiale è così grave da avere rinviato (prima volta nella storia antica e in quella recente) i Giochi Olimpici, non sembra probabilissimo che si possa a breve riprendere a giocare a calcio per assegnare titoli che sarebbero inevitabilmente parodistici.

Ma Pippo non ci sta, e invece di imprecare contro il destino cinico e baro, sospetta –e lo dice- che ci siano degli “interessi dietro”. Chi ce l’avrà mai tanto con i Sanniti da volere espropriarli della promozione? Detrattori di Clemente Mastella? Eredi di soldati Romani memori delle Forche Caudine? Non sappiamo. Sappiamo che Pippo, anche lui, non riesce a concepire che esista un mondo fuori dal calcio e dai suoi aspetti più sordidi, che ci sia qualcosa che vada oltre il sacro blasone, che superi per importanza l’antica inimicizia calcistica fra il Benevento e il Napoli, o l’Avellino, o il Grottaminarda.

La vomitevole gioia di Urbano e il ridicolo sospetto di Pippo appartengono alla stessa matrice: a un evo in cui l’empatia è azzerata, in cui non esiste alcun senso di comunanza con tutto ciò che è fuori dalla loro cerchia, conventicola o sfera di interesse. Non so se Cairo e Inzaghi lo abbiano letto, ma in un certo senso Herbert Marcuse parlava di loro: sono loro, gli “uomini a una dimensione”. La peggiore.

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