L’incubo di una donna ridicola

by Raffaella Passiatore

Dire “c’era una volta” non è evidentemente corretto, e nemmeno dire “c’era stata un volta”. Scrivere poi semplicemente “c’era” sarebbe a dir poco ridicolo, malgrado sia per l’appunto questo il miglior aggettivo a descrivere il nostro personaggio.

Una volta, la donna ridicola di cui qui si racconta sognò di morire. Per una verità ridicola, ad un risveglio ridicolo, nessuno credette che ella avesse sognato qualcosa di tanto ridicolo e fu ridicolmente accusata di aver immaginato tutto. Nessuno, infatti, può accusarci di far sogni ridicoli visto che accadono –soprattutto di notte- nostro malgrado. Al contrario, chiunque potrebbe accusarci di aver in malafede immaginato ogni cosa. Il sogno è puro ed innocente, l’immaginazione non lo è.

La donna ridicola sognò di togliersi la vita, come aveva spesso immaginato di fare. Non con un’arma da fuoco, poiché questo si addice più al suicidio maschile che femminile. Una donna, pur tuttavia ridicola, non usa la pistola per uccidersi. È un’arma volgare, attira l’attenzione, puzza subito dopo l’uso. Una pistola è per antonomasia un simbolo fallico. Agli uomini sparare dà una grande soddisfazione, soprattutto se la vittima è una donna.

Gli uomini preferiscono uccidere che uccidersi tuttavia  -se non meno affini al suicidio- prima di farsi fuori amano anteporre la soppressione di un esemplare femminile, di solito quello più vicino e molesto.

Ma torniamo alla nostra protagonista, la donna ridicola.

Ella sognò che si uccideva con i barbiturici. Dico “uccideva” e non “toglieva la vita” perché, una volta morta, pur non riuscendo a muoversi né a respirare, né ad aprire gli occhi, lei continuava ad avere coscienza di tutto quello che le succedeva intorno ed addirittura ad osservarlo da dietro le palpebre chiuse. Vide come la donna delle pulizie scoprì il suo cadavere e chiamò la polizia. Presenziò da morta alla preparazione del suo cadavere da parte degli addetti alle pompe funebri. Cercò anche di aiutarli mentre gli infilavano il vestito di seta nero ma, purtroppo, non riuscì a piegare né le braccia né le gambe. Le dispiacque molto assistere ai pianti di parenti ed amici, soprattutto sua madre le sembrò sinceramente addolorata.

Quando il suo corpo fu messo nella bara e lasciato nella camera mortuaria per un’intera notte, la donna ridicola fu in grado di distinguere il tenue profumo dei crisantemi ed il tepore delle candele, un refolo d’aria gelida da sotto la finestra, una mosca zampettante all’attaccatura dei capelli, sopravvissuta all’autunno grazie al ristoro della sala mortuaria e rinfrancata adesso dalla forfora del suo cuoio capelluto.

La mattina chiusero il coperchio della bara. Come in una stanza buia ci si abitua all’oscurità, ecco che la donna ridicola da dietro le palpebre chiuse iniziò a percepire i contorni dell’imbottitura di raso e le scanalature geometriche del coperchio. Poi percepì odore di muffa, sentì dei colpi al disopra del coperchio. Stavano chiudendo la fossa con la terra.

Dopo poco avvertì una goccia caderle sull’occhio sinistro. Poco dopo ecco un’altra goccia ancora sullo stesso occhio. E poi una terza, una quarta. Il mascara si stava sciogliendo. Era stata un’idea stupida da parte del personale delle pompe funebri passarle il mascara sulle ciglia! Che senso ha mettere il mascara su ciglia di palpebre morte?

La goccia continuava imperterrita eppure irregolare. Tic tac, tic tac. Non era a tempo, non era una caduta ritmica; questa goccia cadeva senza apparente regola!

La donna ridicola pensò, allora, che la morte fosse migliore della vita. Almeno della sua di vita. Infatti, aveva deciso di uccidersi perché non le importava più di niente, non sentiva più interesse per niente, non soffriva nemmeno più; si annoiava e basta.

Nella morte, invece, avrebbe passato l’eternità ad osservare i colori dell’oscurità; il viola, il blu scuro, il verde-marrone; ombre cromatiche create da ricordi di luce. Avrebbe passato l’eternità nella calma e nella serenità della sua mente; nell’assenza del desiderio e, soprattutto, senza l’imperativo categorico di dover essere felice. Avrebbe assistito alla trasformazione del proprio corpo, al suo gonfiarsi e poi scoppiare, tramutarsi in liquame e poi cibo per invertebrati e vegetali, avrebbe rivisto il sole nella foglia dell’edera e nelle ali della mosca.

Quando si svegliò dal sogno e raccontò ciò che vi era successo, tutti affermarono che non poteva aver sognato; si doveva essere inventata tutto con dovizia di particolari.

La donna trovò la qualcosa e se stessa terribilmente tragica. Nulla di lei le sembrò più ridicolo. E così decise che non si sarebbe in nessun caso tolta la vita.

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