Abitarci adesso.

by Chiara A. Scardicchio

Le case a volte sono bombe.

E’ la paura, spesso, ad accenderle.

La scena di un padre o una madre con gli occhi fissi sullo smartphone o davanti alla tv per cercare di capire, capire come resistere al naufragio e l’arrivo del figlio che sembra spaccare le orecchie e la testa cantando “44 gatti” oppure piangendo “non trovo l’Uomo Ragno, dov’è finito il mio Uomo Ragno?”, come se quella canzone e quel giocattolo fossero il centro del mondo e della sua esistenza, credo sia a molti familiare.

Ci è familiare percepire l’assurdo dello sproporzionamento: tra lo stipendio che forse ci taglieranno o, se abbiamo partita iva, di quello che già non sta arrivando, e l’inutilità ai nostri occhi di quella canzoncina o di quel pupazzetto, nel bel mezzo dell’abisso: e allora quei due pesi, il nostro e il loro, si scontrano e… in qualche casa esplode. Esplode per i pesi diversi, per le misure differenti. E le schegge arrivano a tutti.

Adesso questa scena è forse moltiplicata, in tante case, anche in quelle dove non è mai accaduto o forse è accaduto solo una volta, quella volta soltanto in cui la paura era, come adesso, legata alla sensazione di poco scampo.

Persino la spensieratezza di un bambino, che pure razionalmente tutti riconosciamo come valore assoluto, a volte è come se fosse il click che manda in tilt il nostro tentativo di raccontarci che “sta andando tutto bene”: ed è talmente gigantesca l’operazione di negazione e artificio che ci stiamo chiedendo, che ancora più precario, non più saldo, diventa l’equilibrio che così fragilmente ci sta tenendo.

Tu stai facendo i conti: coi soldi che hai, con quelli che non avrai, con la malattia senza futuro conoscibile se ti prende, col tormento di non essere onnipotente, e tuo figlio adolescente sta ad ascoltare musica, oppure si lamenta di non poter uscire: l’Uomo Ragno e Achille Lauro, come se nulla fosse. Come se nulla fosse. E a qualcuno quel “come se nulla fosse” dà pace, e la bomba preferisce ingoiarsela e farsela brillare nello stomaco, mentre a qualcun altro gli esplode come un botto di Capodanno tra le mani: proprio quella cosa sfacciata del “come se nulla” fa brillare feroce la bomba, la rabbia come scheggia potente verso tutto ciò che non trema quando stai tremando tu.

 “Fuori di me” : lo sappiamo bene e lo sappiamo pure dire bene, mettendo nel linguaggio pop migliaia di articoli scientifici di varie scuole e orientamenti psicologici e neuroscientifici, che  “abbiamo perso il controllo”.

E il controllo lo perdiamo quando qualcosa o qualcuno dice o fa qualsiasi cosa che a noi appare “fuori luogo”, “fuori tempo”, cioè, per la precisione: fuori dal luogo nostro, fuori dal tempo nostro in questo momento. E infatti la questione è dentro: quel fuori è dentro, quel dentro è fuori. La questione è che quella che chiamiamo casa (il nostro equilibrio interiore, la nostra intima stanza) ci pare, piuttosto, una zattera.

La quarantena col panico che ci fiata sul collo è, come ha scritto Paola Scalari[1], trauma collettivo, shock a cui non eravamo preparati, noi-che-la-guerra-non-l’abbiamo-vissuta, noi che ce la siamo solo guardata sui libri, al cinema, in tv, noi che avevamo nella carne il software della felicità intesa come pieno, pieno di like, pieno di selfie e la pizza-vabbè-almeno-il-sabato-sera-se-no-che-lavori-a-fà, pieno di roba, pure le  persone come cose nel carrello del supermercato: e adesso il bancomat non striscia più.

Pure Trump ha un momento di zattera, persino lui che, sì, ci ha provato a comprarsela la vita quasi eterna, a prenotarsi a suon di dollari il vaccino, ma la mossa non è andata a buon fine: chissà se adesso, forse per la prima volta nella sua miliardaria vita, pure Donald-icona-del-mondo scoprirà che esiste quello che non riesci a comprare.

E allora?

Allora puoi anche impazzire.

Recalcati ha scritto pagine strepitose su come il capitalismo abbia mutato le nostre esistenze, e non solo quelle di chi ha i conti dei Ferragnez, ma anche a chi c’ha il conto ogni mese stretto tra entrate e uscite: noi lo vediamo come anche tra gli studenti all’università, qualcuno pensi con le tasse d’essersi pagato non lo studio ma la laurea, e quindi di non dover più di tanto studiare per ricevere quello che si è potuto comprare.

E adesso?

Perdiamo tutti il controllo, questo è. Senza edulcorazione.

Mai come in una forzata quarantena, le nostre case sono mondi: qui adesso tutti i mostri interiori e esteriori si sono dati convocazione, loro sì che stanno assembrati, pare lo stadio dentro ogni mondo che sta racchiuso in ognuno e in ogni appartamento.

Loro, in quarantena da tempo, per consentirci di resistere nel mondo, loro adesso no: sono alla luce adesso, in molti senza controllo.

Così, mi chiedo da giorni cosa sta accadendo nelle case, soprattutto nelle case coi bambini. O coi figli adolescenti, per i quali si sta realizzando l’incubo peggiore a quell’età: la convivenza h24 con mamma e papà, la rinuncia ai coetanei che a quel tempo ami come vitali.

Penso, tra gli altri, a quelli che “il prof.re non ti apprezza figlio mio, adesso gli faccio vedere chi siamo. Oppure no, neanche ci parliamo, cambiamo scuola, noi il mondo lo fanculiamo” o a quelli che “ah, i dottori che massa di ignoranti”, per non parlare di quelli che “siete tutti, tutti coglioni, voi. Noi abbiamo capito tutto, noi sappiamo vivere, fare i selfie belli e strisciare il bancomat senza le palpitazioni”.

Ecco, ho in mente quel tipo antropologico. Già. E adesso?

“Il pos ancora arriva a domicilio, on line funziona paypal, ma pure io ho paura, sto su una zattera, sebbene più accessoriata di quella degli altri, gli sfigati, i poveracci”.

E sì: famiglie che questa povertà già la abitavano e che adesso più velocemente stanno sprofondando perché per qualcuno l’abisso riguarda non solo il vuoto psichico ma anche quello reale, l’anima sta piena di mostri e il frigorifero è vuoto.

E in tutte queste case, nonostante le diversità acute tra conti correnti e futuri possibili, che sta succedendo ai bambini? Ai figli?

Qualcuno scrive che il trauma è potente e che dopo occorrerà prendersi cura del contraccolpo, del disturbo post traumatico collettivo, in particolare quello di tutte le famiglie che da chiuse stanno perdendo il controllo: che le bestemmie, o in dialetto o col congiuntivo, sempre disperazione sono.

E allora?

Mentre scrivo, adesso, mio figlio, che ha 5 anni, è venuto, a chiedermi, nell’ordine:

  • Se 200 è un numero più grande di 202;
  • Se potevo giocare con lui a dama;
  • Se gli squali tigre e le orche assassine sono amici.
  • Se può fare le bolle di sapone sul mio pc

Tutto questo mentre mia figlia, che ha 16 anni ed è autistica, mi toglie i calzini e ogni tanto urla come fosse allo stadio e in campo ci fossero, come una volta, come nel mio cuore, Cabrini e Scirea dietro la palla e Bearzot a bordo campo (per noi gli acuti dell’inno nazionale e la questione escatologica – “siam pronti alla morte” – sono roba costante, schegge quotidiane).

E allora, proprio in questi giorni in cui ho paura e più paura che mai, più paura di sempre, possiamo provare a stare in quello spazio larghissimo, e sinceramente vorticoso, che è il nostro mondo interno, e tutto questo non mentre ci assentiamo, no, proprio mentre carichiamo e scarichiamo la lavatrice e ascoltiamo un racconto della scimmia George o di come “le nuvole a volte sembrano parlarci sai, mamma”.

Ecco, che possiamo fare adesso proprio adesso tra il bambino che pensa altro e l’adolescente indomita che è altrove, e la borsa di Milano che come noi precipita e tutto questo mentre… siamo a casa?

Vegliare su noi stessi, osservare l’anima in campo, darle spazio perché sta nuda e sta per entrare, o è entrata già, nell’abisso, in molte forme: occorre dircelo perché dobbiamo preparare lo spazio intimo, la superficie concava che anche siamo, per non lasciare che i mostri si avventino e ci prendano e non riusciamo a prepararci per il futuro ignoto che ci attende.

Il dialogo interno è la forma della coscienza, la forma che riconosce l’illusione del controllo e ospita una resa paradossalmente non inerme, una resa che è il contrario della rassegnazione: “non so come andrà, molto probabilmente non tutto andrà bene. Ma posso cercare, qualsiasi cosa accada, di coltivareilbene”.  

Occorre osservare la nostra paura: è legittima, sensata. Ma può non essere la sola a prendersi il posto, a prendersi lo spazio, tutto lo spazio disponibile nella stanza che siamo.

Come?

Possiamo passare dal monologo al dialogo interiore, quel mindsight[2] che ci distoglie dal monopolio ossessivo, dello sguardo fisso, fissato, solo su quello che stiamo perdendo.

Sì, stiamo perdendo: molto, moltissimo, e forse tutto, se penso alle case in cui stanno morendo. Ma qualcosa resta, finchè restiamo noi stessi, pur nella disperazione, ostinata la vita può restare. Non resta uguale, no. Non è la stessa Cenerentola quella alla fine della storia. Per non parlare di Biancaneve che sì, si becca il principe ma ha conosciuto l’esilio, un tentato omicidio con scarnificazione possibile, un avvelenamento e un coma.

I bambini lo sanno, lo sanno bene che nelle favole esiste il lieto fine, ma che… quel finale non corrisponde all’assenza di iniziazione. I bambini che hanno ascoltato le “favole vere”, come le chiamava Calvino, lo sanno che quella festa in conclusione si raggiunge per attraversamento: di boschi, orchi assassini, persino matrigne, prove truculente e bestie a tre teste.

A loro possiamo dire loro che andrà bene sì, ma pure che occorre il tempo nel bosco, (come aveva splendidamente scritto Giovanna Zoboli[3]) e che il bosco – che per Dante fu la selva oscura – è adesso.

E se ce lo diciamo forse la bomba esplode depotenziata, perché quando scoppia è perché sono rimasto/rimasta un sacco di tempo e spazio interiore a indugiare nel nondeve, nondoveva, andare così”: perché lo sappiamo che la vita spesso fa come gli pare, lo sanno anche i bambini che nelle favole la strada non è liscia e soprattutto lo sappiamo tutti – già prima del Coronavirus – che, anche se hai tre carte di credito, ci sono cose che non puoi controllare.

Cos’è che abita e legge in pieno quello che ci sta accadendo, quello che, in un certo senso, è da sempre che ci accade?

In questi giorni ho riascoltato una canzone che mi ha fatto bene nel ridimensionare paura e mostri: “Todo cambia”.  Proprio questa consapevolezza di movimento, che è il contrario della immobilità a cui aspira il controllo, mi è sembrata salutare come atto interiore preparatorio, tanto emotivo quanto cognitivo, per guardare in faccia il drago che in molte forme ci aspetta adesso fuori, e soprattutto dentro.

“Todo cambia”: forse perdiamo e perderemo il controllo sul “come andrà” ma non possiamo non perdere noi stessi. Forse possiamo perdere alcune certezze ma non la coscienza, se accogliamo che la paura è legittima ed è il mezzo, non il fine. Il mezzo paradossalmente sacro per ridimensionare tutto, per ri-misurare attentamente ciò che fino ad ora ci è apparso utile, inutile.

Sicchè, quando i nostri bambini ci chiamano per giocare a un gioco che non serve a niente, riconoscere proprio lì la ricapitolazione fondamentale, l’opportunità per ri-misurare.

I bambini che fanno chiasso, gli adolescenti che stanno muti – ma pure la moglie che sta in bagno a guardarsi sconsolata la ricrescita, e pure il marito a cui manca il mondo – sono la nostra possibilità di crescere in coscienza, aumentando in attenzione. Perché… rompono. Ci rompono, rompono la nostra misura.

In realtà, ogni “altro” lo fa, no?! Ogni altro, sì, ora lo sappiamo che anche in casa abbiamo tutti lo straniero e noi stessi siamo sempre lo straniero di qualcun altro, anche in casa nostra, a volte proprio in casa nostra. E pure noi siamo, come aveva scritto Julia Kristeva[4], stranieri a noi stessi.

Ora lo sappiamo che l’altro, il totalmente altro – l’Uomo Ragno mentre sto cercando di capire come fare col mutuo, l’immigrato sul barcone ed ogni essere umano che a noi sembra in molte forme toglierci qualcosa – è una specie di vento che ti sbatte in faccia a te stesso. E puoi scappare, odiarlo, negarlo, bestemmiare tutte le bestemmie che conosci. Oppure puoi farti un poco abitare, un poco di più abitare da tutta quella scomodità e ospitare questo, pur non invitato, ri-posizionamento, ri-dimensionamento.

Perché sì, le case a volte sono bombe, ma possono essere anche altari mozzafiato, dove si incarna un Dio strepitoso, fatto di madri e padri che e si mettono a cercare l’Uomo Ragno anche mentre si sta sulla zattera.

Questo sì, forse lo possiamo fare: guardare negli occhi un bambino, un figlio, la moglie con la ricrescita, il marito che non si vuole togliere il pigiama.  Possiamo fare una roba assai scontata eppure assai convocante: guardare gli occhi, alzare le teste dagli schermi, non sono solo quelli artificiali. Di psichici ne abbiamo altrettanti.

A quel punto arriva una curiosa padronanza, curiosa perché inaspettatamente legata alla resa, curioso potere che viene dalla cessione.

Ovvero: possiamo autorizzarci a piangere persino.

“Voglio bene solo a Decaro perché è l’unico che capisce”: così ha detto il figlio di una mia amica giorni fa, riferendosi al presidente dell’Anci, nostro amato sindaco, che in diretta, attraversando la città “chiusa”, si è commosso. Un adulto che piange non è un educatore inutile: i bambini hanno bisogno di sapere che tutte le loro emozioni sono esperite, esperibili. Ciò che educa è la concessione al cambio di ritmo, la fine del monopolio del monologo interiore: così, dopo il pianto, legittimo, si può, sapendo d’essere nel bosco, guardare le stelle tra il buio fitto. Due giorni dopo Decaro ha postato l’immagine di lui, col grembiule, con la figlia in cucina a fare la pizza. O forse era il pane, non lo so: ma c’era un adulto, con una responsabilità immensa, che ha trovato il tempo per fare una cosa incredibilmente inutile, eppure incredibilmente vitale.

“Figlio mio, ho trovato l’Uomo Ragno incastrato nella lavatrice. Credo stesse cercando Capitan America”.

“Figlia mia, che musica stai ascoltando?  Ai miei tempi Ligabue, a tua madre piaceva Nek. Ma fammè capì: questo Achille Lauro si chiama così per la nave che ha naufragato?”

Proviamo a non edulcorare la realtà, a non toglierci la paura, se no quella, compressa, esplode. Abitiamo la verità del futuro imprecisato e (giacchè l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande stanno a doppio filo intrecciate) prendiamoci il compito e la bellezza di poter vegliare su noi stessi: e sull’Uomo Ragno, naturalmente.



[1] Paola Scalari, Io resto a casa: tra paure e coscienza, in https://www.edizionilameridiana.it/io-resto-a-casa-tra-paure-e-coscienza/?fbclid=IwAR1S0CA2PprRfPYbhxzSc9TiRqi45FzOUusUS7IG5dUv-sFk8bCJHLUmbBA

[2] Ecco due libri, di un neuroscienziato insieme rigoroso e generosamente comprensibile, per provare in questi giorni a lavorare su noi stessi: Siegel, Mindsight, Cortina; Siegel, Errori da non ripetere, Cortina,

[3] https://www.doppiozero.com/rubriche/1543/201706/limportanza-di-perdersi-nel-bosco

[4] J. Kristeva, Stranieri a noi stessi, Donzelli Editore, 2014

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