Rita Hayworth, la dea dell’amore

by Orio Caldiron

La bellezza di Rita Hayworth – nata a New York il 17 ottobre del 1918 e morta il 14 maggio 1987 – l’incarnazione del glamour hollywoodiano, è una bellezza artificiosa. Non esplode sullo schermo sin dai primi film, ma si definisce lentamente, liberandosi dal bozzolo dell’esotismo.

Il volto paffuto, i capelli corvini, il sorriso stereotipato, le fattezze goffe e procaci della piccola Margarita Cansino non lasciano certo presagire la fluente chioma fulva e la luminosa risata che contrassegnano l’immagine proverbiale della diva, l’intensa suggestione del suo scandaloso personaggio. Nei tanti film degli anni trenta è soltanto una promettente “starlet” della Columbia, un’impiegata dello star-system pronta a cambiare nome e colore dei capelli, a mettersi a dieta, a farsi rifare i denti, a sottoporsi alla elettrocoagulazione per alzare l’attaccatura dei capelli e allargare la fronte.

Sembra un paradosso che, dopo aver cercato di sottrarsi alla convenzionalità della ballerina spagnola, trovi la sua prima consacrazione divistica tra nacchere e mantillas, cantando su uno sfondo di una Plaza de Toros di cartapesta in Sangue e arena (1941) che rilancia il mito della vamp, della mangiatrice di uomini. L’inarrivabile felicità (1941) e Non sei mai stata così bella (1942) – nei quali canta con Fred Astaire, compiendo il piccolo miracolo di non far rimpiangere Ginger Rogers -sono due titoli che colgono da soli freschezza dell’interprete nel pieno della maturità.

Ma spetta a Fascino (1944) – nell’originale Cover Girl – a fare di Rita Hayworth, della sua sorridente sensualità senza sottintesi, l’incarnazione proverbiale del fascino da copertina. Quando «Life» pubblica la famosa fotografia di Bob Landry che la ritrae nell’abbigliamento classico della pin-up-girl – il corpo sontuoso, i lunghi capelli fluenti, lo sguardo senza mistero – diventa la donna più popolare del momento.

E finalmente viene Gilda (1946) e, con Gilda, il trionfo. Rita, fasciata in un aderentissimo abito da sera senza spalline, si sfila i lunghi guanti neri, canta “Put the Blame on Mame” e entra nel mito. Il successo del film e del personaggio è enorme, tale da fare di lei qualcosa di più di una diva, un fenomeno che non ha eguali nella storia del costume. Si ricorda di solito che la bomba gettata su Bikini venne chiamata Gilda e su di essa fu attaccato un ritratto dell’attrice, ma non fu l’unica manifestazione del nuovo culto. E dopo Gilda? Ci sono film che consacrano. Ci sono film che bruciano. Gilda appartiene a tutte e due le categorie. Negli altri film venuti dopo si insegue il miraggio di una affermazione irripetibile.

Negli anni successivi è una protagonista di primo piano dell’effimera attualità dei rotocalchi. Il matrimonio con Ali Khan è il momento più solenne e celebrato di questo cinema di carta, a cui per contratto sembra negato solo il lieto fine. Il sortilegio del mito rimbalza su se stesso come un boomerang: «È colpa tua» avrebbe detto a Virginia Van Upp, produttrice-scrittrice del film. «Perché tu hai scritto Gilda. E tutti gli uomini che ho conosciuto si sono innamorati di Gilda e si sono svegliati con me».

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