La Grande Guerra vissuta da Cagnano Varano e l’Idroscalo

by Teresa Rauzino

La ricerca di Leonarda Crisetti è un interessante percorso che documenta gli effetti e l’eco che la grande guerra suscitò in un paese del Gargano nord di circa 4600 anime. Fonti documentarie e testimonianze dirette evidenziano l’impatto che la guerra ebbe sulla società civile, cambiando il destino di quasi un migliaio di uomini chiamati al fronte e delle loro famiglie rimaste in paese. Seguendo gli spostamenti dei soldati attraverso la lettura dei fogli matricolari, quei luoghi, quelle trincee, che pure avevamo immaginato tante volte, finiscono per animarsi, si mostrano nella loro vera vita.

La guerra in alta quota si combatterà per la prima volta sul fronte italiano, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica europea. Fino ad allora gli strateghi dei maggiori Stati avevano escluso la possibilità di impiegare truppe a quote altimetriche molto elevate, in condizioni estreme. Sul fronte italo-austriaco, le caratteristiche fisiche del territorio montano rendevano le postazioni di difesa meno protette e più ravvicinate, esponendo maggiormente i soldati.

“I nostri combattenti in quegli ambienti ostili e nelle circostanze sfavorevoli – scrive la Crisetti – dettero risposte a volte sorprendenti, evidenziando spirito di collaborazione e capacità di adattamento, anche se non mancarono insubordinazioni che i comandanti punirono con giustizia sommaria. Ma gli ordini degli ufficiali non sempre furono dettati dal buon senso”.

Guerra che doveva servire a “forgiare gli italiani” e che produsse la triste realtà di madri senza figli, figli senza padri, mogli senza mariti. Combattenti di età compresa tra i 18 e i 43 anni, giovani che non avevano messo il naso fuori dal proprio paese, strappati improvvisamente alla loro quotidianità – semina, pastorizia, raccolta, pesca – precaria già prima della guerra, catapultati in una realtà ostile qual era il fronte italiano.  Un paesaggio bello – quello alpino – bello da ammirare, ma difficile da vivere quando si è mal vestiti, male armati, mal comandati, impreparati, costipati nelle trincee scavate qua e là lungo una linea di confine che si snoda per 240 km dal Passo dello Stelvio al Carso attraverso altipiani, pianure, creste innevate, tagliando in due le popolazioni.

Come si evince dalle testimonianze degli eredi di coloro che questa guerra la combatterono, la partecipazione alla “guerra europea” dei soldati cagnanesi non fu sempre entusiastica, e a volte fu decisamente forzata. Al fronte dovettero andarci soprattutto coloro che non avevano santi in paradiso per ottenere l’agognato esonero.  E morirono tanti fanti, e pochi sottufficiali …  In totale 105, a fronte dei 77 iscritti nella lapide commemorativa dei caduti della grande guerra che svetta sulla parete dell’ex Convento dei padri Riformati di Cagnano Varano, in quel tempo Municipio della cittadina garganica.

Impressiona il racconto, custodito nella memoria dei famigliari di alcuni soldati cagnanesi, delle “procurate infermità”. “Mégghje surde che mmorte!” (meglio sordo che morto!). “Basta mettere delle gocce di acido muriatico nell’orecchio – si diceva – che sarete riformati”. Ma al danno si aggiunse la beffa, perché essi dovettero partire o restare a combattere al fronte: i medici non avallavano le azioni autolesioniste dei soldati. 

Molti, pur di non partire per la guerra, o essere rimandati a casa, si automutilavano un arto.  Chi non aveva proprio il coraggio di farlo, chiedeva in famiglia di aiutarlo in questa terribile azione, ottenendo il giusto rifiuto. La sorella di Matteo De Vita si portò il rimorso per tutta la vita, per non averlo salvato dalla morte, avvenuta puntualmente in guerra… e addolorata, ripeteva: “Meglio senza una mano, che morto!”.

Altri disertarono rifugiandosi nei boschi e nelle campagne. Il sindaco Giuseppe Pepe, di orientamento socialista, è costretto, da ordini superiori, a convincerli a costituirsi. Non vennero tenuti in carcere a scontare la pena di diserzione, ma furono inviati al fronte. Molti combatterono con onore e, quando dopo la guerra il loro reato fu prescritto, furono addirittura decorati.  

Talvolta al fronte la lotta contro la morte fu impari. La ricerca della Crisetti documenta l’uso dei gas asfissianti, causa della morte di un soldato cagnanese. Ci torna in mente un quadro di Otto Dix, che racconta l’orrore della guerra durante un attacco di gas. L’effetto di terrore è dato dalla distorsione fisica provocata dalle maschere antigas indossate dai soldati.

Interessante la documentazione riguardante le azioni dell’Amministrazione comunale cagnanese, guidata dal sindaco Pepe. Un percorso accidentato, per le difficili condizioni di governo di un Consiglio che spesso non poté deliberare importanti provvedimenti fiscali di tassazione progressiva, e a favore delle classi più disagiate, per mancanza di numero legale.

Furono avanzate istanze al Ministero dell’Agricoltura affinché almeno ai pastori e agli agricoltori riformati, chiamati a nuova visita, venissero concessi i benefici (esoneri e licenze) previsti dalla normativa. La guerra aveva messo in ginocchio l’attività agricolo-pastorale, che era stata da sempre la principale risorsa del paese. La quasi totalità degli addetti cagnanesi risultava partita per il fronte e non tornava a casa neppure nei periodi della semina e del raccolto.  Un problema che riguardava tutto il Sud Italia, e di cui si fece interprete, nella seduta del 13 agosto 1917 del consiglio provinciale di Capitanata, il socialista Michele Maitilasso che denunciò l’iniqua distribuzione delle licenze agricole fra le province d’Italia: “Si è voluto assegnare alla provincia di Foggia, che ha per unica industria l’agricoltura, un egual numero di soldati rispetto ad altre province d’Italia, dove l’agricoltura ha molto minore importanza, mentre poi le province del nord sono sature di soldati esonerati perché applicati alle industrie o figuranti come tali”.

Dichiarata la guerra all’Austria, in tutti i Comuni d’Italia, dalla popolosa Milano al più minuscolo villaggio, sorsero Comitati civili per soccorrere materialmente e moralmente le famiglie dei soldati.

Per tener alto lo spirito pubblico durante quegli anni i maggiori esponenti culturali ed esperti di storia patria del Gargano, che avevano spronato i loro concittadini a partire per il fronte, si attivarono per raccogliere fondi per i soldati e le loro famiglie, stigmatizzando il disfattismo.  “In questo momento – scrive Giovanni Tancredi – non deve suonare una parola che possa deprimere lo spirito del Paese: chi questo non compie, compie un atto contro la Patria”.

In quei giorni l’on. Vincenzo Zaccagnino, deputato di riferimento del collegio Gargano nord, scriveva ai Sindaci esortandoli a creare comitati di civile assistenza: bisognava provvedere non solo a farli sorgere, ma a sorreggerli, aiutandoli in tutti i modi possibili.

Tancredi, presidente del comitato per le notizie storico-statistiche, da Monte Sant’Angelo, e tramite i corrispondenti dagli altri paesi del Gargano, raccolse notizie di prima mano sulle attività dei vari “comitati di assistenza civile” ivi operanti.

Il Comitato di assistenza civile di Cagnano Varano si formò subito all’inizio della guerra e per l’esplicazione della sua opera civile e patriottica si avvalse delle contribuzioni mensili dei volenterosi cittadini, alle quali si aggiunsero quelle dell’Amministrazione comunale e della Cassa di Prestanza Agraria. Sussidiò la refezione per i figli dei soldati e inviò al fronte pacchi di indumenti e viveri. In occasione delle feste natalizie, fu inviato anche del prezioso cioccolato.

Alacre fu la mobilitazione civile nel collegio di Sannicandro: “S’ideavano passeggiate e fiere di beneficenza, attraenti lotterie di ninnoli e giocattoli, per cui non mancò la cooperazione assidua, paziente di gentili donne, di maestri e maestre delle scuole. Per accrescere, inoltre, i fondi di soccorso, si pubblicò una cartolina illustrata: una splendida concezione d’arte, di cui si rese esecutore un valoroso pittore, il Platania”.

Il Comitato di Monte Sant’Angelo istituì il segretariato del popolo, che facilitò la corrispondenza fra i militari e le rispettive famiglie, quasi tutte analfabete.

Vennero sospesi i festeggiamenti per i santi patroni: “Tanto ardere di guerra non ci consente quest’anno di dare il nostro animo a tripudi e gioie nel solenne ritorno del giorno consacrato al culto del nostro Patrono Elia – scrive il sindaco Vincenzo della Torre ai Peschiciani – E’ doveroso a voi, o cittadini, che gli oboli serbati da tempo per la religiosa festa sieno destinati a benefizio della organizzazione civile. Dopo la vittoria solennizzeremo la festa con altri canti ed altre allegrezze”.  

Nel luglio 1915, per alleviare la popolazione dagli inevitabili effetti della guerra e diminuire il disagio delle classi più povere, a Vico del Gargano, iniziato l’inverno, il Comitato sentì la necessità di dare un più ampio aiuto a quelli che già soccorreva ed estendere l’aiuto oltre che alle famiglie dei richiamati, anche a molti poveri che soffrivano le conseguenze della guerra, visto che i viveri e specialmente il grano avevano subito un forte rincaro. Si istituì una cucina economica nei locali del Municipio, che funzionò dal 7 dicembre al 15 aprile 1916 e si distribuirono 6095 “boni gratis” e 7678 “boni” a pagamento per agevolare i poveri che stentavano a tirare avanti. La razione somministrata consisteva in 300 grammi di pane e in 200 di pasta e fagioli pesati crudi.

L’impegno bellico di decine di migliaia di braccianti e piccoli proprietari determinò in Capitanata una forte contrazione delle terre coltivate. Nel 1917 circa 100.000 ettari di terre risultarono incolte, con forte diminuzione della produzione agricola. Furono allora dirottati in Capitanata migliaia di prigionieri austro-ungarici, e utilizzati come manodopera nei campi. L’utilizzo di questa forza lavoro venne denunciata da uno dei leader del movimento socialista di Capitanata, il sanseverese Leone Mucci, che nella seduta del 13 agosto 1917 del consiglio provinciale levò una vibrata protesta: “La borghesia vuole i prigionieri, ma ha la pretesa di non pagarli e di farli lavorare fino allo sfinimento. Ho visto ieri un vagone di questi miseri, provenienti da Cerignola, ridotti gialli e scheletriti dalla malaria, ed ho pensato che essi non han voluto la guerra, come non l’hanno voluta i nostri contadini che forse oggi in Austria sono egualmente così inumanamente trattati. Il proprietario non ragiona, vuole i suoi uomini da sfruttare, e poiché non ci sono più i contadini patri, esige i prigionieri per fare il doppio guadagno anche sui salari”.

Visto che a tutto dicembre nessuna offerta di fitto da parte di privati era giunta a causa dell’alto costo della manodopera, quintuplicato rispetto agli anni precedenti, e soprattutto per l’incognita del prezzo dell’olio (“data l’abbondante produzione in tutto il Regno e la cessazione dello stato di guerra”), anche il Consiglio comunale di Cagnano Varano nel 1918 aveva pensato di affidare la raccolta delle olive nel fondo del Puzzone ai prigionieri di guerra. Ma non se ne fece nulla.  Il progetto fu considerato troppo oneroso per il Comune, che molto probabilmente non avrebbe guadagnato nulla perché, alla spesa per i prigionieri, avrebbe dovuto aggiungere quella per retribuire il personale di sorveglianza, per pagare scale, tende, recipienti per depositare l’olio, etc. Per non abbandonare i giovani uliveti alla devastazione del pascolo abusivo, il Consiglio permise alle famiglie bisognose dei militari di raccogliere le olive gratis. 

Terminata la guerra, al ritorno dal fronte dei reduci, in provincia di Foggia la situazione economica si presentava drammatica. Nel marzo del 1919 il prefetto denunciò la presenza in Capitanata di 30.000 braccianti disoccupati. I Comuni cercarono di avviare lavori pubblici, ma i fondi per finanziarli erano davvero esigui.

Si stentava persino a stanziare in bilancio le somme occorrenti per erigere monumenti ai caduti. Ci riuscirono a Vico, a San Marco in Lamis e a Monte Sant’Angelo. A Rodi abortì il tentativo di erigere un vero monumento, e fu apposta una semplice lapide, inaugurata il 4 novembre 1921. Con un certo tempismo rispetto alla lapide di Cagnano, che fu allocata solo nel 1926.

Il sacerdote Michel’Antonio Fini lasciò ai posteri, pubblicandolo in un opuscoletto dal titolo “Italia immortale”, il discorso che tenne a Rodi in quell’occasione nell’odierna Piazza Rovelli. Era il giorno in cui in contemporanea, a Roma e in tutta Italia, si svolgevano le celebrazioni per il milite Ignoto: la più grande manifestazione patriottica corale che l’Italia unitaria avesse mai visto. A Roma, il 4 novembre, la salma fu tumulata sull’Altare della patria alla presenza di Vittorio Emanuele III, con una cerimonia sobria, senza alcun discorso ufficiale.

Scrive Fini: “Nel terzo compleanno di Vittorio Veneto, sull’altare della Patria, nel sole radioso di Roma, oggi l’Italia si appresta a tumulare solennemente il suo milite ignoto raccolto dalle trincee fra lo Stelvio e l’Adriatico; il figlio eroico dato in olocausto dalle madri alla più grande Madre, quel soldato sconosciuto che potrebbe anche essere un figlio di Rodi, o Cittadini, un figlio del vostro seno, o Madri rodiane; il piccolo grande Morto ignoto chiamato a personificare, appunto perché non ha un nome suo proprio, tutto l’esercito italiano che, con indomito valore e col trionfo delle armi, integrò la Patria nei suoi inviolabili confini segnati da Dio. E noi, rodiani, noi oggi pur partecipiamo di qui, con altra cerimonia, a codesto rito. Che diremo noi qui, ai piedi di questo marmo nell’animo nostro più durevole del bronzo; che diremo noi pei nostri Caduti nella grande guerra? Furono studenti, operai, contadini, figli del mare. Tutte le classi, tutte le condizioni fuse insieme in un solo amore, in un solo ideale, in un unico scopo. Andarono essi alla morte forse come al giuoco, come all’amore, come al sonno: freschi, spensierati e gai. Furono essi insieme sacerdoti e vittime d’Italia sull’altare sanguinoso della redenzione suprema”. Oggi, in questo sperduto paese e nella capitale d’Italia, nelle metropoli come nei villaggi, si esaltano i morti, l’Esercito e la Patria. Passano e sventolano oggi al sole d’Italia mille e mille bandiere. Suonano ed echeggiano oggi al vento mille e mille campane. Alta la fronte e l’anima, o cittadini! Immortali sono gli eroi! Immortale è l’Italia madre che va sempre verso il suo immortale destino!”.

La visione del prelato rodiano risente dell’ampollosa retorica interventista di cui era stato un acceso fautore, e mi intriga che Leonarda Crisetti smentisca in toto, avvalendosi delle informazioni raccolte nel prezioso studio sul campo realizzato con le docenti e gli studenti del Comprensivo “D’Apolito”, la visione nazionalistica esaltata di cui Fini fu un interprete convinto.

Ai morti al fronte in Capitanata si aggiunsero le vittime causate dall’epidemia di «febbre spagnola», nell’autunno del 1918. In Italia ci furono 600-700 mila vittime, nel mondo tra i 50 e i 100 milioni. Migliaia furono le persone contagiate dal morbo, che non risparmiò nessuno dei nostri 54 comuni, causando un numero di vittime civili probabilmente pari ai 5.287 soldati caduti al fronte in tre anni e mezzo di guerra. Una strage di civili, soprattutto anziani, bambini e donne, che portò ad oltre 10.000 il numero dei morti contati dalla provincia di Foggia durante la prima guerra mondiale.

La piccola cittadina di Cagnano Varano registrò una punta massima di 18 decessi quotidiani. La Crisetti documenta che, nei mesi tra ottobre e dicembre 1918 (in cui si registrò il picco della pandemia “spagnola”), morirono non solo i civili, ma anche 28 giovani avieri, provenienti da varie regioni italiane, in servizio presso la Stazione Idrovolanti di San Nicola Imbuti.

I soldati di Capitanata caddero su vari fronti, ma soprattutto sui monti del Trentino. Fra le azioni di guerra compiute non mancarono atti di eroismo, segnati da 97 medaglie d’argento e 67 di bronzo al valore militare. Il Consiglio Provinciale, per ricordarli, patrocinò un “Albo d’oro dei decorati e dei caduti di Terra di Capitanata” della Grande Guerra, pubblicato il 10 dicembre 1925 dalla Società editrice “Daunia” di Lucera nella tipografia Cappetta. Il libro, in cui erano elencati tutti i nomi e riprodotte molte fotografie dei decorati e dei caduti raccolte dal capitano Umberto Vincitorio, oltre che “un atto d’amore e di gratitudine verso gli eroi e i morti delle loro famiglie ancora doloranti”, si proponeva come “documento ai viventi” delle “virtù della terra comune”, quantificabili nel largo contributo di passione, di sangue, di vite umane che la terra Foggia aveva dato alla causa della guerra e della vittoria. Virtù raffigurate negli ampi elenchi di nomi dei decorati, nel racconto delle gesta gloriose, reso con motivazioni sobrie, dell’eroismo premiato, ma soprattutto nei semplici, infiniti, elenchi di nomi di soldati che non tornarono più alle loro case.

“Questi eroi – sottolinea nella prefazione F. Piccolo, curatore dell’Albo – erano migliaia (oltre cinquemila), eroi delle città industriose e dei monti del Gargano e del Subappennino, tolti allo studio, alle funzioni intellettuali della vita, ai campi, staccati dal libro, dall’officina, dall’aratro, nati da una terra ferace di uomini e di intelligenze, povera di risorse, educati al lavoro e al culto dell’idea, testimoni di una fede comune, confessori di una patria comune una e libera, combattenti, mutilati, morti con la certezza di un destino infallibile alla terra restituita nei suoi giusti confini”. Il lavoro non fu facile. Molte date inesatte, gli elenchi dei decorati incompleti. Poche foto. Fra quelle pervenute dai lontani e solitari paesetti del Gargano e del Subappennino, molte erano scolorite, sapevano di terriccio di trincea e di morte, sgualcite nella disperazione, trascurate nella miseria. “Quanti soldati, caduti, non hanno lasciato neppure una fotografia? – si chiede Piccolo – E quante famiglie non hanno, dei loro cari, neppure la gioia di una fotografia?”.

All’epoca a Cagnano non c’era alcun fotografo, come si evince dalla lettera-cartolina inviata al “caro comparo” Michele Iacovelli, combattente in Albania, da Angelina Pelusi, moglie del dottor Michele Grossi. Nell’Albo d’oro troviamo soltanto la foto, in uniforme, del tenente del Terzo Bersaglieri  Nicola d’Apolito, cui fu conferita una medaglia d’argento al valor militare. In uniforme è anche uno dei quattro caduti, Santo Pelusi. Gli altri tre, Stefania Francesco, Padunella (alias Paduanello) Santo, (D’)Aloia Santo,  sono in abiti civili.

Alla Crisetti il merito di aver recuperato negli archivi familiari, e pubblicato in questo suo libro, anche i ritratti di tanti altri ignoti soldati cagnanesi, i cui volti (oltre ai nomi e alle storie) sono stati avvolti, per un secolo, nel velo dell’oblio e della dimenticanza.

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