Bonaventura c’est moi. E la serialità del Milione

by Orio Caldiron

«Qui comincia la sventura/del signor Bonaventura». Nell’ottobre 1917 si avviano sul Corriere dei Piccoli le «sventure» del signor Bonaventura, dopo i fumetti importati e adattati di Fortunello (l’Happy Hooligan di Frederick Burr Opper), Mimo Mammolo (il Buster Brown di Richard Felton Outlcault), Bibì e Bibò (i Katzenjammer Kids di Harold Knerr), Arcibaldo e Petronilla (gli Jiggs & Maggie di Geo McManus), e quelli nazionali ma non meno eccitanti come Bilbolbul di Attilio Mussino, Quadratino, Cirillo, Pino e Pina, Cara e Cora, Lola e Lalla di Antonio Rubino, Sor Pampurio di Carlo Bisio, Marmittone di Bruno Angoletta, Pier Cloruro de’Lambicchi di Giovanni Manca.

Bonaventura «c’est moi», Sergio Tofano nel suo impeccabile understatement non l’ha mai detto. Ma avrebbe potuto dirlo benissimo senza neppure il bisogno di esibire le prove. Che sono tutte lì nel suo sontuoso album di attore di teatro, dove il fondamentale decennio di formazione dal 1913 al 1923 trascorso con Virgilio Talli è rappresentato dalla sola fotografia sopravvissuta alle fatiche delle tournée, quella di L’asino di Buridano di Robert de Flers e Gaston de Caillavet, un classico della commedia boulevardière messo in scena nel 1919. Questo Sergio Tofano avvolto in un gigantesco pigiama da casa con i bordi di seta a fiori, le braccia sui fianchi a angolo retto, sguardo in macchina sorridente ma impassibile, è la perfetta controfigura del suo personaggio. Pronto a reincarnarsi, solo se sfogliamo la sua fitta filmografia, nell’azzimato agente di cambio in bombetta e bastone di O la borsa o la vita (Carlo Ludovico Bragaglia, 1933). Non è impossibile neppure intravedere la fonte del «bellissimo Cecè» nel direttore della Compagnia del Teatro Popolare con cui è stato prima di Talli, in quel «Cecè» Dondini che sin nelle sue note un po’ nasali impersona il brillante signorile e civettuolo del teatro all’antica italiana. Chissà chi può legittimamente avanzare qualche pretesa sul «torvo Barbariccia dalla maschera verdiccia»?

FRA AUTOBIOGRAFIA E PERSONAGGIO

Nauralmente sto scheranzo, anche se non c’è assolutamente nulla da ridere sul rapporto profondo e inafferrabile tra autobiografia e personaggio. «Il dato autobiografico, nell’invenzione di Bonaventura», osserva Attilio Bertolucci, «è un fatto innegabile, ma assai sottile, non fondato su elementi precisi e reali. Indefinibile l’età di Bonaventura, immaginario l’ambiente in cui egli vive, stilizzato il suo costume e quello dei personaggi minori ma necessari allo svolgersi delle sue mille avventure: niente da fare, in questo senso, per stabilire, verificare parentele o comunque legami fra Bonaventura e Sergio Tofano. Che risultano invece evidentissimi, sul piano intellettuale, a guardare l’altra faccia della personalità di Tofano stesso, quella dell’attore. Il cui sforzo e la cui difficile ma splendida riuscita sono tutti nel senso di stilizzazione e di eleganza che distinguono pure l’infinita serie di casi del signor Bonaventura».

Ma con il suo personaggio di carta, lavorando «più di gomma che di matita», Sergio Tofano sembra andare oltre, avventurandosi nei sentieri del mito, nell’area metafisica in cui i personaggi diventano maschere. «Il signor Bonaventura è una maschera», scrive Alberto Cecchi, «il suo abbigliamento – larghi calzoni bianchi, giubbotto rosso con breve pellegrina, rosso cappuccio a melone, larghe scarpe anche rosse –, è fissato per sempre, è un “costume” irreale come quello delle maschere. […] La curva delle sue avventure […] è ogni volta coincidente, monotona nella diversità, diversa nella monotonia. Il bilancio […] è sempre il medesimo, e la partenza e l’arrivo di lui, i punti fermi della sua vita, combaciano inevitabilmente, malgrado tutti gli ostacoli. […] Ogni mattina, tutto è da rifare. Ogni mattina gli sembra di essere al principio».

PUBBLICITÀ, CINEMA, TEATRO

Non si può neppure accennare alle vite parallele del personaggio che lascia il segno nella pubblicità di aperitivi e di champagne, ma soprattutto nel teatro per bambini con le sei commedie musicali, da Qui comincia la sventura del signor Bonaventura (1927) a La Regina in berlina con Bonaventura staffetta dello ambasciatore (1928), da Una losca congiura ovvero Barbariccia contro Bonaventura (1929) a L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi (1936), da Bonaventura veterinario per forza (1948) a Bonaventura precettore a corte (1953), più volte rappresentate. La sola occasione cinematografica risale invece a Cenerentola e il signor Bonaventura (Sergio Tofano, 1942), subito dopo le brevi «favole di Sto» apparse su Film, il settimanale di Mino Doletti, dove, come nelle storie degli anni trenta, il regista indossa i knicker-brockers, con in più gli stivaloni. L’ultimo appuntamento è con la paleotelevisione dei primordi quando “Carosello” ospita Le miracolose guarigioni di Bonaventura (1958) e Le avventure del signor Bonaventura (1959). Al solito milione elargito con i «ringraziamenti più commossi», Bonaventura obietta «Grazie, preferirei le Lanerossi». Che è il committente delle due serie.

CHE COS’È UN MILIONE?

La serialità a episodi trova la sua incarnazione esemplare nel protagonista di migliaia di avventure che ha un appuntamento – irrinunciabile – con il destino. Nonostante l’apparenza della più banale quotidianità, siamo nell’universo dell’assurdo, in cui è “normale” che le figure di carta parlino in rima. Ma un appuntamento è un appuntamento. Il milione aspetta sempre il protagonista alla fine della sua nuova vicenda, nello spazio prevedibile dell’ultima vignetta. Sberleffo da varietà futurista? Trovata da clown, come il naso di cartone o il fiore che spruzza l’acqua? Nel milione – soltanto un foglio di carta bianca con la scritta «un milione» – si può vedere di tutto, anche il contrassegno della serialità che torna sempre su se stessa, si morde la coda. Nella inconsapevolezza degli autori di massa – basta pensare a Conan Doyle che tenta di togliere di mezzo Sherlock Holmes – anche Tofano avrebbe voluto cambiare il finale e rendere meno rituale la conclusione delle storie. Ma le proteste dei lettori non glielo hanno permesso.

Si cercherebbero invano nell’imperturbabile character, nel suo aplomb distaccato e sfuggente le influenze dirette dei minacciosi slogan futuristi che tra il 1909 e il 1916 precedono la sua nascita, dalla polemica contro i valori tradizionali ai miti della macchina, della violenza, della guerra.Nonostante l’ironia dell’autore abbia esorcizzato il ricalco, la sensibilità futurista è indubbiamente uno degli ingredienti della grande metafora della serialità multimediale che è al fondo dello sterminato ciclo di disavventure, straniata antisaga della coazione a ripetere, all’insegna della velocità ritmata dal facile ticchettio degli ottonari, in cui il bassotto non può nascere che quando il protagonista «caduto era di sotto».

STERMINATA ATTIVITÀ GRAFICA

All’inizio nessuno può prevedere che al papà di Bonaventura – il mitico Sto – capiti, come succede a tutti gli inventori di maschere, di essere vampirizzato dalla sua creatura. Con il rischio di lasciare in ombra tutto il resto, anche quando si tratti di una sterminata attività grafica di disegnatore, illustratore, scenografo. Sono centinaia i figurini e le copertine per La Donna (1914), Lidel (1919), Vanity Fair (1923-1928), dove si impongono le «rapinose suggestioni» e le «languide grazie» della moda: un capitolo a sé di grande fascino tra l’Esposizione d’arte della moda di Roma del 1914 e l’Exposition des arts décoratives modernes di Parigi del 1923, in cui rifulgono l’eleganza del tratto e l’invenzione fantastica del disegnatore. Si possono certo escogitare sofisticate genealogie, ma il riferimento più immediato è Herté. Appartengono alla stessa costellazione dall’intenso sapore liberty le bellissime copertine per Penombra (poi In penombra), il mensile di cinema diretto da Tomaso Monicelli e per Le scimmie e lo specchio, la rivista di teatro diretta da Francesco Prandi. Da applauso.

Molto folto lo scaffale dei libri illustrati, da Verne a Collodi, da Renard a Allodoli, da Fanciulli a Fraccaroli, da Bontempelli a Calvino, senza contare le decine di edizioni di Il romanzo delle mie delusioni, Storie di cantastorie, I cavoli a merenda dello stesso Tofano e le numerose riproposte delle «sventure» teatrali di Bonvantura con nuove copertine e tavole a colori. Sapeva mantenere nei confronti dei testi l’autonomia che gli consentiva, come tutti i grandi illustratori, di suggerirne letture personali e inconfondibili. Se basta una pagina per sintonizzarsi con il suo guizzante Pinocchio, tutto risolto nel movimento, le illustrazioni di La Scacchiera davanti allo Specchio (1922) sembrano invece prendere di contraggenio la rarefatta favola di Bontempelli, ma è solo per riportare con i piedi per terra le asettiche geometrie dell’originale, le sue umbratili luminescenze.

Se le copertine anni venti dei romanzi di Pitigrilli, da La cintura di castità a Oltraggio al pudore, indulgono all’ammiccamento malizioso, la splendida tavola per l’umoristico Fantasio-Film di Ettore Veo vale un saggio sullo star-system d’epoca. La grafica di Sto straripa da tutte le parti. Memorabile il lavoro per la Campari, soprattutto la serie del “Cantastorie”, con la grande ombra incombente di Faust accanto alla vetrata gotica. Ma come trascurare gli schizzi rapidi e essenziali, quasi un taccuino in progress sugli usi e costumi teatrali apparsi tra anteguerra e dopoguerra su Il Dramma e Scenario? Uno per tutti, ma perfetto, quello sul teatro di massa. Il palcoscenico rutilante d’armi, di comparse, di squilli di tromba. Nell’enorme platea a semicerchio, un unico spettatore.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.