Volevo nascondermi: Elio Germano è Ligabue, un reietto geniale. Ci sarà occasione di recuperarlo al cinema?

by Nicola Signorile

Un reietto geniale, capace attraverso il talento artistico di esprimere un grande attaccamento alla vita. Volevo nascondermi di Giorgio Diritti è il film giusto nel momento sbagliato: dopo l’accoglienza al festival di Berlino e l’Orso d’Argento per il miglior attore a Elio Germano, la sua corsa è stata stoppata dall’emergenza sanitaria che ha portato alla chiusura forzata dei cinema in tutta Italia. Ci sarà occasione per il grande pubblico per recuperarlo in sala?

Al momento non è dato saperlo, ma il quarto lungometraggio del regista di Bologna lo merita per la sua forza poetica e per la straordinaria interpretazione di Elio Germano. Volevo nascondermi è un biopic inconsueto che racconta la vita del pittore e scultore Antonio Ligabue, detto Toni, tra i più importanti artisti naif del XX secolo. Inconsueto perché segue il percorso emotivo di Toni, trasgredendo spesso allo sviluppo cronologico per privilegiare consonanze emotive e artistiche. Toni, corpo sgraziato e anima candida, è figlio di un’emigrata italiana, affidato a una coppia svizzero-tedesca, respinto dalla Svizzera in Italia a causa dei problemi mentali e delle bizzarrie che lo portano sin da bambino a entrare e uscire dai manicomi. Un’infanzia difficile, fatta di rifiuto ed emarginazione. Messo alla berlina, etichettato come matto, deriso per le sue stranezze dai coetanei; ce lo mostra il flashback che apre il film, mentre, adulto, nascosto sotto una coperta scura, torna ad essere quel bambino impaurito davanti all’ennesimo medico che cerca di penetrare il suo mistero. Non ha amici, né una moglie, e nemmeno un lavoro, per il regime fascista praticamente Toni Ligabue non esiste.

Lo Stato preferisce nascondere quello che non riesce a comprendere e a far rientrare nei canoni della “normalità”. In manicomio,  “El Tudesc”, come lo chiama la gente, uomo solo, brutto, rachitico, si avvicina alla pittura in modo istintivo, sprovvisto com’è di qualsiasi conoscenza della tecnica pittorica. Il desiderio di nascondersi è la prima istanza a prendere forma attraverso la sua arte, che col passare degli anni esprimerà la lotta per non soccombere e le profonde pulsioni vitali di Ligabue. Vivrà per anni in estrema povertà, in una capanna sul fiume Po, resistendo alla solitudine, al freddo, alla fame. L’Emilia rurale non è solo uno sfondo per Diritti che, forte degli insegnamenti del cinema di Pupi Avati e Ermanno Olmi, con il supporto delle scenografie di Ludovica Ferrario e dei costumi di Ursula Patzak, ci rispedisce indietro nel tempo, riportando in vita mondi dimenticati: disegna il paesaggio emotivo in cui fiorisce lo straordinario talento artistico di Ligabue, gli ambienti delle case di campagna, i boschi, i fiumi, gli animali, elementi che nutrono il suo immaginario. In particolare, gli animali sono i soggetti preferiti dei suoi dipinti: tigri, galline, conigli, cavalli, giaguari, osservati e imitati, avvicinati e apprezzati nella loro purezza, più degli uomini e delle donne che lo hanno etichettato come il freak del paese, lo scemo del villaggio da rinchiudere. Gli autoritratti di Ligabue testimoniano un desiderio di riconoscimento, di ascolto, di riscatto. Sentirsi diverso è origine dei suoi mali e nucleo generativo di una identità artistica e del successo crescente. Una sofferenza che sgorga, sgargiante e vitale, in una esplosione di forme e colori sulle tele del pittore.

L’uscita dall’ospedale psichiatrico è il punto di svolta per un riscatto e un riconoscimento pubblico del suo talento. L’elegante messa in scena di Diritti (sottolineata con efficacia dalla colonna sonora firmata da Daniele Furlati e Massimo Biscarini) accompagna la parabola del Ligabue dapprima ferino, molto più simile agli amati animali che agli ostili compaesani, gesticolante, selvatico nel modo di muoversi sotto il peso della sofferenza quotidiana, capace di esprimersi a grugniti e versi, inerpicandosi tra il dialetto emiliano e il natio tedesco. È furioso il modo in cui l’uomo si immerge nella natura, una intima fusione tra il corpo sgraziato del protagonista e il territorio, la Bassa Padana, che, controvoglia, è diventato la sua casa.

La comunità è cesellata con sincerità ma senza giudizi nei confronti dei tanti che, per ignoranza, lo derisero per anni, poi invidiosi della sua fama. Così come si guarda con tenerezza a quei pochi che seppero guardare oltre le sembianze dell’orco scostante, intravedendone la grandezza, tra i tormenti e le fragilità di un’anima delicata. Figure spesso fiabesche, bizzarre con quei volti scolpiti, autentici, simili alle facce di provincia di molti film di Bernardo Bertolucci e di Avati, tra le quali emergono gli amici che saranno fondamentali per il riscatto di Toni: Andrea Mozzali (Andrea Gherpelli), l’amico scalpellino di opere funerarie e pittore umoristico, che s’impegna a ospitarlo a casa sua, a Guastalla, assumendosene le responsabilità; lo scultore Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi) e sua madre (Orietta Notari), una famiglia acquisita che adotta l’artista e gli dà l’impulso decisivo a dedicarsi alla pittura, l’unico modo in cui Toni riuscirà mai ad esprimersi pienamente; il regista Raffaele Andreassi (Mario Perrotta) che gli dedica documentari, portando il suo nome fino a Roma, dove verrà organizzata una delle prime mostre delle sue tele. Il piccolo gruppo di amici lo proteggerà a lungo, diventando il nido al riparo del quale si il suo talento potrà avere libero sfogo. “Io sono un artista”, prenderà a ripetere, usandolo come uno scudo, quando sarà ricco e famoso: auto, motociclette, un bel cappotto nuovo da indossare anche a luglio, perché “ho sofferto tanto freddo nella mia vita”.

Poche volte capita di vedere un attore riuscire a penetrare così nel profondo uno spirito malandato. Più che interpretare, Elio Germano è Antonio Ligabue, in ogni espressione del volto – trasformato dal trucco prostetico di Lorenzo Tamburini (Efa e David di Donatello per Dogman) – in ogni sguardo fermo, in ogni movenza animalesca. L’attore romano conferma una capacità di mimesi non comune, facendo suo un personaggio molto complicato per diverse ragioni: caratteristiche fisiche, linguaggio bislacco, ma soprattutto la profonda sofferenza, unita a una indomita vitalità, che ne caratterizza ogni gesto. Aveva già convinto tutti nell’interpretazione di Giacomo Leopardi nel Giovane favoloso di Mario Martone, ma nei panni di Antonio Ligabue non fa rimpiangere l’indimenticabile prova di Flavio Bucci.

L’attore da poco scomparso, nel 1977, fu protagonista dell’omonimo sceneggiato in tre puntate per la regia di Salvatore Nocita, poi presentato al Festival di Montréal in versione cinematografica ridotta, dove conquistò il Gran Premio delle Americhe e il Premio alla migliore interpretazione maschile. Quello di Diritti si conferma un cinema umanista di scoperta e di comunità, fin dal premiatissimo esordio Il vento fa il suo giro, incentrato su una piccola comunità occitana italiana del cuneese, passando per L’uomo che verrà che, nel 2009, raccontò la vita contadina sull’Appennino emiliano alla vigilia della strage di Marzabotto fino a Un giorno devi andare, ambientato nella favela di Manaus, in  Brasile, sulle rive del Rio Negro. Inoltre, Volevo nascondermi, prodotto da Rai Cinema con Palomar, propone una interessante riflessione sulla diversità, sul valore della specificità di ogni essere umano che, al di là delle apparenze, può essere un dono prezioso per la collettività.

Toni, raggiunto il benessere, aspira a una vita normale. Per la prima volta ha la serenità per esprimere la voglia di libertà e di sentimenti, a lungo repressa. Una normalità che sfiorerà soltanto, come il tenero amore per la compaesana Cesarina. Le donne diventano l’oggetto del desiderio, a tal punto da vestirsi lui stesso con abiti femminili, un modo di possederle almeno idealmente. Il 20 novembre 1962 Antonio Ligabue viene colpito da emiparesi e, dopo cure in vari ospedali, troverà nuovamente ospitalità nel ricovero Carri di Gualtieri, dove morirà il 27 maggio 1965. L’epitaffio sulla sua lapide recita: “Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore”. 

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.