“Il teatro in relazione con la povertà e il disagio”: la rivoluzione culturale del Napoli Teatro Festival spiegata da Ruggero Cappuccio

by Anna Maria Giannone

“Dal teatro di corte della Reggia di Piazza Plebiscito riparte Il Napoli Teatro Festival, a testimonianza del fatto che esiste un Sud che può, un Sud che vuole”. Così il direttore artistico Ruggero Cappuccio ha annunciato in conferenza stampa lo scorso 10 giugno l’avvio della tredicesima edizione del festival nazionale del teatro di Napoli, sostenuto da Regione Campania e realizzato da Fondazione Campania dei Festival, che si terrà dal 1 al 31 luglio nonostante tutte le difficoltà del momento.

Il teatro rinasce con te è il titolo scelto, parole in cui si legge forte la necessità di tornare a vivere che attraversa tutta la comunità del teatro: attori, operatori e pubblico. Un’edizione faticosa, riprogrammata ben tre volte per adeguarsi alle evoluzioni del momento, ma fortemente voluta e sostenuta da grande spirito di servizio. Una riapertura innanzitutto psicologica, necessaria per lasciarsi alle spalle la chiusura che abbiamo attraversato e che –nelle parole di Cappuccio – se avesse un titolo sarebbe “la paura e il coraggio”.

Scenari quali il Palazzo Reale di Napoli, il Bosco di Capodimonte, Palazzo Fondi, i cortili del rione Sanità, il rione De Gasperi, la spiaggia delle Monache a Posillipo, il MANN, il circolo Canottieri, tutti rigorosamente all’aperto, ospiteranno 130 appuntamenti previsti nelle diverse sezioni – teatro, danza, letteratura, cinema, video/performance, musica e mostre – coinvolgendo non solo la città di Napoli ma anche altri territori della Campania.

Cuore della programmazione i 34 spettacoli di prosa, fra cui 28 prime nazionali. Uno spaccato del meglio della produzione teatrale italiana, in attesa della sezione internazionale riprogrammata a partire dall’autunno. In scena, fra tantissimi altri, Silvio Orlando, Vinicio Marchioni, Chiara Guidi, Lina Sastri, Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, Roberto Rustioni, Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Pippo Delbono, Arturo Cirillo, Mariangela D’Abbraccio, Anagoor, Carrozzeria Orfeo.

Di questa ripartenza abbiamo parlato con Ruggero Cappuccio, scrittore, regista, attore e, da quattro edizioni, guida artistica del Napoli Teatro Festival.

Direttore lei ha definito quella del Napoli Teatro Festival una “riapertura psicologica”. Come immagina questo ritorno a vivere il teatro da parte del pubblico? Che risposta si aspetta?

Come è già stato dimostrato da altre riaperture i cittadini hanno voglia di potersi riappropriare, sia pure con le dovute precauzioni, di una vita di relazione. Il teatro è una delle attività sociali più sicure: in una palestra, in una chiesa si corrono più rischi perché tutto è affidato alla coscienza dei singoli. A teatro il distanziamento è determinabile sin dal botteghino, i posti sono assegnati, gli spettacoli si terranno all’aperto in luoghi molto ben ossigenati. Sono sicuro che il pubblico risponderà con grande entusiasmo. Non dobbiamo dimenticare che il teatro è un settore molto fragile, fra i primissimi a chiudere e fra gli ultimi a riaprire. Se non avessimo ricominciato avremmo corso il rischio di ruggine perenne. Gli attori degli spettacoli, dei film, dei documentari di cui ci siamo nutriti durante il periodo di chiusura sembravano imprescindibili davanti al pericolo della morte ma sono stati immediatamente scaricati nel momento della ripresa.

Il settore teatrale, culturale in genere, è percepito male e poco dalla società. C’è molto lavoro da fare su questo. Qual è la strada secondo lei?

Falcone e Borsellino dicevano che la mafia in Italia era soprattutto un problema culturale, non a caso trascorsero la loro vita a incontrare gli studenti. La cattiva percezione del settore teatrale in Italia è un problema di carattere culturale. Se chiedessimo a dieci italiani i nomi di tre cantanti lirici i più illuminati si fermerebbero a Pavarotti, Carreras, Domingo. Questo non accadrebbe in Francia, in Austria e in altri paesi. D’altronde siamo il paese che detiene la maggior parte del patrimonio musicale mondiale ma cancella l’educazione musicale dalle scuole. Abbiamo creato una subcultura televisiva della quale si sono nutriti quasi tutti i nostri politici, è chiaro che per l’italiano medio l’attore è quello delle fiction, il volto noto al quale chiedere l’autografo.

Il problema generale è che il lavoratore dello spettacolo vive un inquadramento hobbistico. È una vicenda drammatica che appartiene alla struttura del nostro Stato. Soprattutto nei decenni passati ogni volta che bisognava scegliere un Ministro dei Beni Culturali si guardava al politico meno accreditato elettoralmente. Eppure ormai dovrebbe essere sufficientemente dimostrato che la cultura produce un indotto enorme. Non sostenere la cultura è un atto autolesionistico sotto tutti i punti di vista ma sembra la cosa più difficile da capire. Ma pensandoci: quando ascoltiamo i nostri politici in televisione capita mai di sentirli citare un grande romanzo, una sinfonia, o che facciano delle metafore? Viviamo un grande momento di crisi della percezione estetica, la stessa parola estetica è diventata un problema…ma questo discorso meriterebbe molto tempo.

In questo c’è anche una responsabilità di chi programma, un timore di deludere il pubblico…

VENICE, ITALY – SEPTEMBER 03: Silvio Orlando attends the premiere of ‘The Young Pope’ during the 73rd Venice Film Festival on September 3, 2016 in Venice, Italy.

C’è una responsabilità enorme di chi programma che deriva dall’affetto generale che domina questo paese. Il nostro è un paese fondato sul concetto di consolazione, non è un paese che cerca sfide e questo ha un effetto a cascata.

Lei ha parlato di un valore di “rivoluzione sociale” del Napoli Teatro Festival. Ci spiega?

La prima riforma da quando sono direttore artistico del Festival è stata quella di abbassare il costo dei biglietti. Prima uno spettacolo costava 34 euro ora ne costa 8, con una tessera Feltrinelli 5 euro. Ho voluto fortemente che gli anziani con una pensione minima potessero entrare gratis agli spettacoli. C’è un tragico teorema che vige sulla vita culturale italiana: interessa generalmente a persone che non hanno soldi. I ricchi, con le dovute eccezioni, quasi mai sono interessati alla cultura. Per altro in una società dove possiamo vedere un capolavoro al cinema per 8 euro, comprare un Oscar Mondadori in cui c’è dentro tutta l’Odissea, perché mai il teatro dovrebbe costare tanto? Questo discorso vale soprattutto quando si parla di teatro finanziato a livello pubblico. Il Napoli Teatro Festival si fa con le risorse degli italiani. Non mi risulta che quando ci si ricovera in un ospedale pubblico si paghi: se la cultura è un servizio pubblico perché mai dovremmo pagarla in maniera così salata? Questa decisione di abbassare i prezzi è stata fonte di molta soddisfazione: un festival è una vetrina multiforme di possibilità, se un giovane vuole investire 50 euro e vedere 10 spettacoli può farlo. Il messaggio prima era “puoi venire o non puoi venire?”, ora chiediamo al pubblico “vuoi venire o non vuoi venire?”: questo fa una grande differenza.

Una parte importante della programmazione coinvolge anche pubblici non abituali, i cittadini più ai margini.

L’altra rivoluzione è stata far entrare il teatro in relazione con la povertà, la fragilità, il disagio sociale. Nella sezione invernale proponiamo iniziative in cui nuclei teatrali fra i più accreditati in Italia lavorano con disagiati psichici, rifugiati politici, donne vittime di violenza, non vedenti, adolescenti a rischio dei quartieri più popolari di Napoli. Un festival è un centro di ascolto delle deficienze della società. Ci sono bellissime soddisfazioni in questo lavoro, ragazzi che hanno fatto lo spacciatore oggi lavorano come tecnici, fonici o attori.

Avete riprogrammato il festival ben tre volte, adattandovi alle evoluzioni dell’emergenza sanitaria in corso. In che modo si è trasformato?

Fortunatamente non si è modificato nei contenuti, tranne per un caso: il concerto al Teatro San Carlo del maestro De Simone è stata un’idea venuta dopo. Per il resto i titoli sono gli stessi, anche perché un festival che si rispetti lavora con larghissimo anticipo sulla progettazione. Abbiamo però faticato moltissimo sulla calendarizzazione degli eventi. Prima erano pensati anche per i teatri, abbiamo dovuto ripensare tutto all’aperto. Avevamo inizialmente programmato su settembre ma quando abbiamo capito che la curva del contagio sarebbe stata più bassa a luglio abbiamo spostato tutto. Bisognerebbe progettare una casa psichiatrica apposita per gli organizzatori…

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