Quello che io penso sulle donne e sul nostro percorso di libertà

by Paola Manno

Quello che io sento, ogni mattina, quando esco alle 7e45 e sono già sveglia da almeno un paio d’ore, è l’odore di milioni di caffè che zampillano da milioni di moke, riempite da milioni di mani di casalinghe o lavoratrici.

Quello che io vedo sono mille migliaia di mamme italiane che corrono in macchina spettinate ad accompagnare i loro figli a scuola, tempestate da richieste su WhatsApp di altre mamme pettinate, che oggi cucineranno alle 9 del mattino o compreranno al volo un pollo al take-away.

Vedo migliaia di  donne che accudiscono i figli di altre, mentre altre donne accudiscono i loro, vedo mille madri che verranno licenziate perché madri, mille ragazze che verranno molestate per strada, vedo la donna che oggi verrà ammazzata da un uomo violento, e se non è oggi sarà senza dubbio domani, vedo altre donne che partoriranno i loro figli, chi assistita per bene, chi nel dolore che le è d’obbligo, vedo donne che di figli non ne possono avere o che non ne vogliono, senza sentirsi in colpa, vedo vecchie signore sospirare, insomma, una giornata media in questo normale paese non troppo felice.

Quello che io so sulle donne è che ne ho incontrate molte sempre in guerra, sempre pronte al giudizio, alla critica, all’assurdo bisogno di dimostrare di essere migliori, donne che provano piacere nello sminuire l’altra, che scommettono sull’odio e solo quando vincono sembrano trovare pace.

Quello che io provo, di fronte all’odio delle donne verso le altre donne, è sempre una grande rabbia.

Quello di cui io sono certa, è che spesso due donne in guerra hanno molte più cose in comune che una donna e il suo compagno: i piatti da lavare, l’ansia per un lavoro che non c’è, la rivendicazione di un diritto, la solitudine che spesso ci attanaglia.

Quello che mi dico è che sarebbe certamente più utile sfogare tutta questa rabbia, che da qualche parte deve pur finire, non sulle altre donne, ma su coloro che ci hanno legato le mani, anche se ben poche si permettono di farlo. 

Quello che io temo è che il percorso di liberazione che ogni donna, a un certo punto, si ritrova a fare, sia molto più difficile e doloroso senza l’appoggio di chi ha già percorso le stesse strade. Già, perché ogni donna a un certo punto intraprende il percorso della libertà: da un padre, da un compagno, dai figli, da un’idea di bellezza, dal mito della giovinezza…

Quello che io ho capito è che siamo in cammino, tutte quante. Se ci spingiamo, se ci facciamo lo sgambetto, è una sconfitta per ognuna.

Quello che io ho imparato è che lavorare fra donne è un valore aggiunto.

Quello che io credo si debba fare è aprire gli occhi, per vedere e osservare e chiederci perché non diventiamo presidenti, perché non giriamo film, perché non vinciamo premi Nobel e Oscar, o almeno, non tanti come gli uomini.

Quello di cui sono certa è che non è che devo apprezzare, votare, leggere una donna solo perché è donna, naturalmente, ma nemmeno devo non farlo per lo stesso motivo.

Quello che mi fa rabbia è che il mestiere della cura è una cosa che ci hanno insegnato sin da bambine, da generazioni, e proprio noi spesso siamo quelle che non riescono a sentire l’empatia. L’empatia, che è uno strumento straordinario.

Quello che mi rattrista è l’impressione che noi donne pensiamo poco al diritto al divertimento, al dovere del divertimento! Lo dimentichiamo, a un certo punto della nostra vita, mentre mi pare che gli uomini lo dimentichino un po’ meno.

Quello che mi commuove è il pensiero delle mie tante amiche, che sono come sorelle, davvero, con le quali basta un gesto, una battuta.

Quello che penso, ogni mattina, quando sento l’odore del mio caffè facendo l’elenco delle mie lunghe giornate, è che il bisogno di ritrovarsi è una priorità, più urgente delle quote rose, delle manifestazioni, degli articoli sui giornali.

Quello che mi auguro, è che saremo ancora in tempo, stamattina, per non volersi male, per non volersi il male.

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