L’inquietante Jacques Tourneur

by Orio Caldiron

Nessuno incarna meglio di Jacques Tourneur il fascino del grande artigianato americano, la forza dirompente di una miscela in cui si scontrano esuberanza narrativa e voyeurismo dell’immagine, padronanza tecnica e latitanza drammaturgica, ipertrofia dell’io e dialettica della committenza. Se da tempo sono andati in frantumi gli steccati tra arte e industria, stile e mercato, autore e spettacolo, lo dobbiamo agli “Hollywood professional”, da Raoul Walsh a Jacques Tourneur, da Michael Curtiz a Samuel Fuller, da Don Siegel a Clint Eastwood, che ci hanno insegnato a cercare la teoria nella pratica, mentre ci introducevano nei labirinti dei generi.

Singolare figura di frontalier, a metà strada tra Francia e Stati Uniti – nasce a Parigi il 19 novembre 1904 e muore a Bergerac il 19 dicembre 1977, dopo essere stato in America dal 1914 al 1929 per tornarci dal 1934 al 1966, gli anni cruciali della sua carriera negli studios – quando con l’avvento del sonoro debutta nel lungometraggio ha già alle spalle una ingarbugliata biografia da pendolare, quasi un romanzo di formazione, all’ombra del padre, uno dei maestri più originali e innovativi del cinema americano dei “twenty”, e della madre attrice. L’influenza di Maurice Tourneur sul giovane Jacques è enorme. Se il gusto figurativo, il senso della luce, la predilezione per il cinema di genere, altrettanti tratti comuni ai due, colgono la superficie professionale del rapporto, una sorta di passaggio del testimone celebrato sul set, la glaciale durezza del padre, la sua tenace incapacità di esprimere i sentimenti, segnano il figlio nei recessi indecifrabili e profondi della sua personalità.

Qualcuno si è chiesto se l’esperienza del lungo corridoio buio che, tra paura e desiderio, doveva attraversare da bambino per arrivare alla sala dei regali avrà su Jacques l’effetto devastante che la notte in guardina inflitta dal padre al piccolo Alfred Hitchcock aveva avuto, per sua esplicita ammissione, sul futuro maestro del suspense. L’interrogativo è di quelli destinati a restare senza risposta, nello stesso momento in cui si scatenano le ipotesi più diverse. Si ha l’impressione che gli eroi tourneuriani, costretti a affrontare tra timore e tremore la precarietà della propria erratica esistenza, non si siano mai allontanati da quel corridoio tenebroso, una sorta di incubico “shock corridor” in cui i trasalimenti dell’insicurezza lasciano filtrare i dilemmi di una inquietante problematicità.

La trilogia realizzata con il producer Val Lewton per la rko – Il bacio della pantera, 1942, Ho camminato con uno zombie, 1943, L’uomo leopardo, 1943 – ha notamente un posto di grande rilievo nell’attività del franco-americano che coglie con singolare sottigliezza la soglia del fantastico riuscendo a dar vita attraverso la scansione della luce a un cinema onirico, sempre in bilico tra il detto e il non-detto. Il più intenso è forse Ho camminato con uno zombie, dove il gioco delle luci e delle ombre anima, tra ellissi e indizi, presentimenti e rivelazioni, una sorta di secondo livello del racconto, una drammaturgia del sogno in cui l’invisibile si prende la rivincita sul visibile.

Ho camminato con uno zombie

Il segreto del regista sta proprio nell’attrazione per l’invisibile, nella scommessa dell’indecifrabile, nella sfuggente realtà del male che avvolge le atmosfere cupe, ammalate, ossessive dei suoi film più importanti. Se ne trovano tracce anche nelle opere di routine, da Il treno ferma a Berlino (1948), dove il complotto neo-nazista passa in secondo piano di fronte alle angosciose immagini delle macerie di una devastazione non solo fisica, a Il gigante di New York (1949), in cui la crisi del campione di football si intreccia con la voracità rapinatrice della moglie, facendo del protagonista uno dei tanti eroi in trappola, mentre il sogno americano scricchiola da tutte le parti. Sono a corrente alternata alcuni titoli degli anni cinquanta come  Alibi sotto la neve (1956), in cui i temi canonici dell’inseguimento e della fuga si rinnovano nell’inconsueta ambientazione nelle montagne del Wyoming e nel sorprendente intreccio di quotidiano e di eccezionale che esalta i particolari a svantaggio dell’insieme, o come il meno riuscito La piovra umana (1958), in cui Dana Andrews, reduce della Corea a disagio nella mutata società americana, incarna in modo esemplare la stanchezza dell’eroe e l’incubo dello smarrimento.

Se i suoi western con Joel McCrea, soprattutto Wichita (1955), meritano un discorso a parte per la capacità di affrontare con una nuova accezione della luce e del colore i problemi della frontiera e della legge, l’universo di elezione resta il noir. Non a caso il capolavoro del regista Le catene della colpa (1947), l’apogeo del genere in cui la deriva di Jeff Bailey (un sonnambolico, indimenticabile Robert Mitchum), inghiottito dal passato, travolto dalle pulsioni più segrete, diventa il viaggio finale verso la morte. Il talento di Nicholas Musuraca – il grande operatore che aveva contribuito al successo di Il bacio della pantera con le cupe sottolineature di un fotogramma dove non succede mai niente, ma tutto può accadere a ogni momento – qui collabora in modo geniale con l’autore teso a rievocare la discesa agli inferi di un morto in permesso, facendo lievitare la morbosa atmosfera della rêverie sessuale che avvolge il protagonista come un veleno, l’intossicazione di un fiore maligno. La dialettica della luce e dell’ombra, affidata alle medusiche sciabolate del chiaroscuro, coincide con la dialettica della vita, il suo disfacimento, la sua fine.

Il bacio della pantera

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