Rosa Parks, 68 anni fa il “No” che cambiò il corso della storia

by Paola Manno

Ci sono dei no che sono monumenti. 

Quello di Rosa Parks, pronunciato sul sedile di un autobus a Montgomery, in Alabama, il 1 dicembre del 1955, è uno di questi, perché proprio quel no segna una fine, e insieme un nuovo inizio.  

Su quell’autobus dove i posti destinati ai neri erano quelli in fondo, quando l’autista chiese a Rosa di alzarsi per far sedere un bianco, la donna restò al suo posto. “Mettendosi a sedere, […] si alzò per difendere i diritti di tutti e la dignità dell’America” spiegò il presidente Bill Clinton quando nel 1999 le consegnò la medaglia d’oro del Congresso, massimo riconoscimento civile. 

Prima di lei, migliaia di persone avevano ceduto il loro posto. Qualcuno, che non lo aveva fatto, aveva pagato con la prigione o con la vita quell’affronto. Un anno prima, nel 1944, Booker Spicely venne ucciso a colpi di pistola da un conducente di autobus a Durham, nella Carolina del Nord, dopo che si era rifiutato di andare a sedersi in fondo al mezzo.

Prima di Rosa anche Claudette Colvin, una ragazza di 15 anni, incinta, rifiutò di alzarsi e cedere il suo posto.

Dietro al no di Rosa c’erano decenni di soprusi, di umiliazioni, di ingiustizie. Quel no era la voce che urlava che la razza è un’idea, non un fatto, e che il razzismo non è una questione naturale, ma qualcosa che ha a che fare con la cultura, con il potere. Roberto Saviano, nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera di Toni Morrison, ci ricorda come il razzismo sia infatti la responsabilità di impedire la creazione di una umanità comune

Quello di Rosa Parks fu un no pieno di consapevolezza. “Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire”.

Rosa era una sarta di 42 anni la cui coscienza politica era forte. Aveva sposato, nel 1932, Raymond Parks, attivo nel movimento dei diritti civili. Era segretaria della sezione di Montgomery della National Association for the Advancement of Colored People.

La notte del suo arresto i suoi amici, insieme a numerosi rappresentanti della comunità afroamericana, tra i quali Martin Luther King, si riunirono per discutere su una reazione comune riguardo all’arresto della donna. Si decise di iniziare il boicottaggio dei mezzi pubblici della città.

La protesta si propagò in altre parti del Paese e durò più di un anno, durante il quale i neri non salirono più sugli autobus. Con la testa alta, sotto la pioggia o in mezzo al vento, si alzavano prima dell’alba per andare a lavorare,  camminavano per ore pur di non pagare quel biglietto, rientravano a casa a piedi, per far capire ai bianchi il valore della loro vita. Riesco a immaginare con chiarezza i loro volti, riesco a sentire i  loro passi: intere famiglie, anziani, ragazzini, tutti a piedi. Insieme a loro, a trasmettere la forza del passato, tutti quelli che non ce l’avevano fatta, tutti gli schiavi neri morti di fatica, o a seguito di tremende punizioni corporali, gli umiliati, quelli affogati in mare lungo la traversata dall’Africa al Nuovo Continente.

Dopo 13 mesi la Corte Suprema degli Stati Uniti proclamò incostituzionale la segregazione sui mezzi pubblici. Era il 1956, eppure l’immagine di un’umanità in cammino è di una disarmante attualità e mi fa pensare alle parole di Alessandro Leogrande nel racconto di un’altra schiavitù che non è ancora finita: “Vengono dal passato remoto e dal passato prossimo. Vengono dalle piantagioni di pomodoro, dalle vigne, dai latifondi mietuti a mano, dalle stalle, dalle aie…vengono dalle grotte. È lì, nel passato, o meglio in chi nel passato è stato sommerso da quelle macerie, nei lutti, nei frantumi, la ragione di ogni rivolta. Le rivoluzioni vanno fatte per i vinti di ieri, per chi non ha più voce, non solo per i vivi”. 

Gli occhi di Rosa Parks sono quelli di mille e mille persone insieme e quel 1 dicembre di 65 anni fa è un giorno che assomiglia, per esempio, al 6 luglio del 2011, quando Yvan Sagnet, bracciante camerunese e studente di ingegneria, ha pronunciato il suo no davanti a un sistema fatto di sfruttamento e brutalità, dando inizio a uno degli scioperi più importanti nelle campagne salentine degli ultimi tempi. 

Penso con rabbia agli altri no che sono venuti dopo, a quello di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano di 36 anni, ucciso da alcuni ultras per aver risposto a degli insulti razzisti rivolti alla moglie nel 2016, a quello dell’attivista sindacale Sacko Soumayla, ventinovenne maliano, in prima fila in difesa dei braccianti agricoli sfruttati nella Piana di Gioia Tauro, ammazzato nel giugno del 2018.

Penso con sgomento al no di Willy Duarte, a tutti gli altri no che dovranno essere pronunciati -da altre bocche, dalle bocche di tutti- che saranno altri passi del cammino, altri mattoni, altri monumenti vivi, fino a quando non serviranno più, mai più, un giorno, speriamo, molto vicino.  

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