All’EY Capri, il business sociale del Premio Nobel Mohammad Yunus

by Claudia Pellicano

Fare tesoro del passato per guardare al futuro: è questo il minimo comune denominatore della seconda giornata di EY Capri, la kermesse Ernst&Young che, tra i temi dell’edizione 2019, dedica uno spazio privilegiato a tecnologia e innovazione.

Perché l’Italia resti al passo con le sfide della digitalizzazione è imprescindibile il coinvolgimento delle istituzioni, come testimonia l’intervento del neoministro Paola Pisano, che annuncia tre obiettivi fondamentali:  inclusione digitale (il divario, in Italia, penalizza 10 milioni di cittadini); diritto a innovare: adeguare le normative per venire incontro alle nuove esigenze delle imprese; fare squadra: creare delle piattaforme abilitanti che permettano di sviluppare la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni e approntare progetti e strategie comuni ai vari ministeri in tema d’innovazione.

Innovazione che non può prescindere dalla relazione tra persone e tecnologia, come ribadisce Jaron Lanier, l’ideatore del termine “realtà virtuale” annoverato tra le 25 persone più influenti del pianeta: «Con l’avvento di Internet, abbiamo commesso due errori fondamentali: da una parte è prevalsa un’idea di sinistra, in base alla quale si credeva che qualunque cosa presente sul web, compresa ogni forma d’espressione, dovesse essere gratuita; dall’altra, negli ambienti più a destra, si riteneva che gli imprenditori tecnologici dovessero essere supereroi in grado di piegare l’universo».

Il nodo è una redistribuzione delle dinamiche di potere attualmente a favore di chi raccoglie e gestisce i dati, e il ruolo di tutela che le istituzioni sono chiamate a svolgere. Sebbene i dati abbiano un valore economico, permane una forte asimmetria tra chi li genera e chi li utilizza. Con Google e Facebook gli utilizzatori beneficiano della socialità, ma non del profitto che generano. Ogni volta che due  individui collaborano o entrano in contatto su Internet, si crea un valore economico per le parti terze, generando una crescente alienazione negli utenti. La risposta è nella “data dignity”, il riconoscimento del valore intrinseco dell’informazione e la conseguente compensazione dei contenuti che si forniscono in rete.

Quello che è cominciato come una pubblicità indirizzata, si è evoluto enormemente. L’algoritmo è diventato sempre più sofisticato, permettendo di osservare e categorizzare sempre meglio gli utenti.  Un network digitale può giungere a creare una “skinner box” per l’intera popolazione, approntando un sistema in cui chi è più bravo a condizionare e stimolare reazioni acquista sempre più potere.

Un esempio è dato dal movimento Black Lives Matter: la visibilità che ha ricevuto ne ha moltiplicato l’impatto. L’algoritmo massimizza l’”engagement” e la “persuasion”, che Lanier traduce con “addiction e manipulation”. Lancia le notizie in modo casuale, poi osserva come il pubblico interagisce con quel contenuto. Le reazioni di rabbia e paura, ad esempio, portano automaticamente al contatto con altri utenti. I comportamenti sotto sorveglianza possono favorire le politiche di populismo.

A ricordare che l’innovazione tecnologica, da sola, non sia sufficiente, e che si debba proteggere le persone dallo sfruttamento, è Mohammad Yunus, premio Nobel per la Pace nel 2006. La sua storia è esemplare: comincia col prestare personalmente soldi ai più indigenti, che non avrebbero mai ottenuto un prestito senza garanzie, e crea una banca, entrando in conflitto col sistema bancario: «Non capisco ancora il banking, guardo come fanno le banche e faccio il contrario Se loro vanno dai ricchi, io vado dai poveri. Se investono in città, io vado nei villaggi. Se prestano soprattutto a uomini, io lo faccio con le donne». Costruisce rapporti sulla fiducia, non sulle garanzie: «La mia è l’unica banca al mondo che non si avvale di avvocati».

«Il problema – prosegue –  non è l’inclusione finanziaria, ma la non esclusione. La povertà non è creata dalle persone, ma dal sistema, che dev’essere aggiustato. Lavorando con i poveri si entra in contatto con altre problematiche, che mi hanno portato alla reazione di ulteriori programmi. Ogni volta che c’è un problema, creo un modello di business per risolverlo. Non voglio fare soldi, ma risolvere problemi. I miei programmi sono sostenibili, perché riprendo solo i soldi che investo.
Il denaro acceca, ma bisogna capire che, contrariamente a quello che si potrebbe credere, la gente non agisce solo in base all’interesse personale, ma anche in base all’interesse comune. Il mio è un business sociale».

Sono tre i temi che preoccupano Yunus:

) i soldi sono concentrati nelle mani di pochi. È una situazione disfunzionale, destinata, prima o poi, ad esplodere;

2) il cambiamento climatico; se non agiamo in fretta, entro poche decadi raggiungeremo un punto di non ritorno;

3) l’intelligenza artificiale, che potrebbe surclassare il lavoro in efficienza. Il capitale aumenterà, ma il lavoro no. Come risolvere questo problema? Col reddito universale? Non è questo il destino dell’umanità, ma la creatività e il controllo della propria vita.

Non bisogna temere l’innovazione, ma asservirla alle nostre necessità, come sottolinea anche Ilaria Capua, che sostiene si debba ripensare alla salute attraverso un approccio circolare, che abbracci anche l’etica.

Gli antichi ritenevano che l’uomo facesse parte di un unicum in cui umanità, spazio e tempo si compenetravano. Viviamo in un ecosistema che abbiamo contribuito a sconvolgere e in cui gli elementi influenzano la nostra salute. Tuttavia possiamo ancora imparare dagli errori, promuovendo un’innovazione responsabile. I big data di cui disponiamo ci permettono di ridefinire le priorità e ripensare alla salute, in un’ottica che tenga conto e faccia avanzare lo stato di benessere dell’intero ecosistema. Le disinfestazioni non uccidono solo le zanzare, ma anche le api, senza le quali il pianeta non potrebbe sopravvivere.

Approccio condiviso da Marco Gualtieri, fondatore di Seeds&Chips: «L’Italia non può chiamarsi fuori da questa sfida di leadership. Dobbiamo portare avanti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile che i Paesi hanno sottoscritto nel 2015». Il filo conduttore è, ancora una volta, la sostenibilità: «Gli obiettivi devono trovarsi al centro delle strategie di governo e imprese. Chi non ne farà parte, ne sarà travolto, chi lo farà, avrà, in poco tempo un grande vantaggio competitivo sugli altri. È possibile entrare in un circolo virtuoso senza ritornare al passato, ma riprogettando il mondo, immaginando un futuro sostenibile senza privarsi del profitto economico».


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