L’odissea linguistica degli emigrati nella terra dei madrelingua

by Raffaella Passiatore

La conosce l’emigrante, mai il turista.

Il turista che si cimenta con una lingua straniera può permettersi gli errori; i madrelingua apprezzeranno i suoi sforzi,  sorrideranno agli strafalcioni e anzi lo aiuteranno, con indulgenza lo correggeranno. Non si fa mai altrettanto con l’emigrante.

L’emigrante ad ogni errore verrà giudicato, spesso schernito; al meglio che possa andare sarà guardato di traverso con silenzioso disprezzo.

E se l’emigrante è all’estero come “cervello”, ci si aspetta da lui la perfezione.

Eppure, anche un madrelingua ignorante avrà una pronuncia migliore dello straniero acculturato.

E poi i madrelingua mica devono conoscere la grammatica per riuscire a parlare correttamente! L’hanno imparata da bambini la Lingua, l’hanno succhiata col latte materno; vanno in automatico, senza pensare. Lo straniero mai.

Facciamo l’esempio di un italiano in Terra tedescofona che abbia compiuto il primo semestre alla facoltà di Germanistica. Un interlocutore madrelingua gli ha fatto una semplicissima domanda: « Dove vai? » L’italiano pensa tra sè più o meno così:

Allora, adesso voglio dire “vado al cinema”, il verbo lo so declinare, nessun problema:“Ich gehe”. La preposizione che devo usare è “in”, poi cinema…sì, ma di che genere è cinema? Porcamiseria! È maschile? No, è femminile? I generi in questa accidenti di lingua sono come la lotteria! Non riuscirò mai ad imparare tutti i generi di tutti i sostantivi a memoria! No, no, “Kino” è neutro. Neutro?? Cos’è un neutro? Una specie di androgino, un angelo!?? Vabbè, adesso non è il momento, lasciamo perdere, veloce, veloce, questo qua già sbuffa!Mica si può farlo aspettare mezz’ora per rispondere ad una domanda facile facile… allora, dov’ero rimasto? “Kino” è neutro. Ma sono sicuro? Sì, sicuro. Che caso vuole “in”? Dativo. NO, porcalamiseriaccia, il caso dipende dal verbo!!! Se il verbo è di movimento, allora si deve usare l’accusativo, me lo ricordo? Sì, sì, me lo ricordo, allora:  “Das”, l’accusativo del neutro è “Das”, allora, ricapitoliamo: “Ich gehe in das Kino”, ok, adesso devo unire la preposizione con l’articolo; “in + das = ins”.

Ci sono: «Ich gehe ins Kino! » Grida l’italiano soddisfatto con un bel sorriso smagliante. E a quel punto si ritrova solo, si guarda intorno ma dell’interlocutore non c’è più traccia.

Il Tedesco è una lingua molto precisa nell’individuazione semantica, forse l’unica in cui bisognerebbe studiare la filosofia, per essere abbastanza certi di aver capito giusto. (Perfino Hegel, letto in tedesco, si capisce un pochino meglio.)

La precisione, di per sé una qualità, può diventare un problema nel passaggio dal Tedesco all’Italiano, soprattutto nel caso in cui si tratti di poesia.

Faccio un esempio.

La mia raccolta di poesie Il Tempo Leone era in fase di traduzione.

In una delle poesie appare la parola “umanità”. La traduttrice un giorno mi chiama e mi chiede: «In che senso intendi umanità? »

«Come in che senso?» Le rispondo io.

«Eh, sì… » fa lei, «perché in italiano voi avete una sola parola per tre accezioni diverse, noi invece abbiamo tre parole diverse, pur tuttavia con la stessa radice. Nella tua poesia, con la parola “umanità” cosa intendi?:

Se intendi l’insieme di tutti gli esseri umani, allora tradurrò: Menschheit.

Se invece intendi solidarietà e comprensione allora dovrò tradurre  Menschlichkeit.Se poi invece intendi la condizione umana -in senso anche spirituale-  allora dovrò tradurre Menschsein. Quindi, deciditi: cosa vuoi dire?»

Il Tedesco possiede una precisione esemplare, la qual cosa è fantastica in un trattato di filosofia che, pertanto, lascia poco spazio ai malintesi ma in un testo poetico qual è l’effetto di tanta esattezza? Spesso è uno svilimento del significato. In un testo poetico questa precisione può diventare limitante.

Sì, perché è proprio nella lirica che le tre accezioni vivono contemporaneamente e, il non specificarle, aumenta l’effetto simbolico e quindi il potere stesso della parola poetica.

Scegliere uno dei tre significati significa depauperare la pluralità semantica della parola poetica. Scrivendo in Italiano non siamo costretti a farlo, in tedesco sì.

Eppure, indirettamente, proprio a livello semantico, le parole composte tedesche possono essere quanto di più poetico ci si possa immaginare; ad ogni modo per gli stranieri, non per i madrelingua. (Finalmente un punto a favore dell’emigrante!)

Una parola composta tedesca sarebbe come in italiano: Apribottiglie, dove però in tedesco gli “addendi” sono invertiti, quindi -per esempio-: Flaschenöffner. Scomponiamo la parola: Flaschen: bottiglie, Öffner : apritore.

Il madrelingua percepisce la parola tedesca composta come una parola a sé, con significato proprio; raramente riflette su quali parole la compongano.

Se poi, incosciamente, le due “parole addendi” muovano ai loro significati autonomi anche nel soggetto madrelingua, allora sicuramente lo faranno con intensità minore rispetto a quanto accade nella testa dello straniero.

Facciamo degli esempi più interessanti dell’apribottiglie.

Friedhof. La prima parte della parola, nella sua etimologia originaria, viene da:

Einfriedung che è la recinzione, quella intorno alla chiesa, dove trovavano posto appunto le tombe.

Ma Friede, significa Pace, Silenzio ed è chiaro che questa parola di uso più comune -pur non essendo l’etimo corretto- sia di grande suggestione per lo straniero, nella percezione fonetica prima e semantica poi. La seconda parte della parola è Hof: Cortile.

Il genitivo o l’aggettivo è sempre la parola delle due che sta prima, quindi ogni volta che io sento Fried-hof non penso ad un macabro cimitero ma ad un Cortile della pace.

Le due parole, che unite danno un terzo significato, agiscono comunque sulla psiche del non madrelingua, modificando la percezione -soprattutto emotiva- della parola tedesca composta.

(Da quando parlo il tedesco devo ammettere che sono diventata più brava a risolvere i rebus!)

Altro esempio: Hochzeit si traduce con Matrimonio, laddove Zeit significa Tempo e Hoch significa Alto.

Allora leggo Hoch-zeit e penso: Tempo elevato, Tempo insigne…

Ancora: Augenblick significa Attimo o Momento, dove Blick  significa Veduta, Sguardo e Auge significa Occhio.   

Solo; questa parola in tedesco si può dire in due modi, una con accezione negativa, l’altra che va da neutra a positiva.

Quella negativa è Einsam, dove l’etimo di Sam potrebbe derivare da  Samt: Completo. Ein significa Uno.

L’accezione positiva invece è Allein, dove Ein è -come abbiamo detto- Uno e All significa Spazio.

Allora io penso: Uno dello spazio, Uno col tutto… 

La cosa positiva è che se un amico vi chiede in tedesco: «Come va? » potete rispondergli concisamente «Sono solo» e tuttavia lui capirà -a seconda del termine che avete scelto- se volete dire: «Cristo, sono solo come un cane! » oppure:  «Sono solo e sto da Dio! »

Comunque, circa le etimologie, non posso qui non citare Javier Marias col suo “Papirotazo”. Il protagonista del romanzo Tutte le anime è un professore di Madrid che ha avuto un incarico presso l’università di Oxford come docente di letteratura spagnola.

“Il mio ruolo in quelle lezioni era più rischioso che nelle conferenze poiché consisteva nel servire da grammatica e da dizionario parlanti…

Le consultazioni più ardue erano quelle etimologiche, ma nel giro di poco tempo, e spinto dall’impazienza e dal desiderio di compiacere, non esitai ad inventare etimologie deliranti sul momento e per trarmi d’impaccio…

Di fronte a domande che mi apparivano tanto maligne ed assurde quanto sapere quale fosse l’origine della parola papirotazo, non esitavo a fornire risposte ancora più assurde e maligne.

-Papirotazo, dunque. Questo tipo di colpo impartito con l’indice ripiegato si chiama così perché era in quel modo che si colpivano i papiri trovati in Egitto agli inizi del XIX secolo per verificarne la resistenza e per cominciare a determinarne l’antichità.”

(Cfr. Todas Las Almas, Edizioni Einaudi 1989. pag.11)

Il professore, a sua insaputa, era già stato smascherato dal rettore della facoltà che, poco prima della scadenza del suo incarico, gli svela la vera etimologia di Papirotazo; etimo forse ancora più incredibile di quello inventato! Io qui non vi svelerò le origini del Papirotazo costringendovi -spero- a leggere il libro di Marias.

L’autore non nasconde le sue intenzioni nel raccontarci questa storia, e lo fa da “Io narrante”:

“A volte il sapere vero risulta indifferente, e allora si può inventare”.

(Cfr. Todas Las Almas, Edizioni Einaudi 1989. pag.13)

Quella che io chiamo “Inversione cerebrale” è un altro martirio al quale lo straniero, parlante Tedesco, è sottoposto.

La sensazione d’inversione degli emisferi cerebrali, quando si parla tedesco, è quasi una costante nelle frasi secondarie che richiedono il verbo alla fine (Non per niente Mark Twain chiamò tale struttura un delitto!)

Molto sgradevole diventa annotare i numeri di telefono. Sì, perché in tedesco le unità sono pronunciate prima delle decine; quindi non si dirà -per esempio- Ventisette , ma Sette e venti.

Io ho risolto il problema scrivendo i numeri sotto dettatura al contrario.

Ma l’inversione -nel confronto con l’Italiano- può anche essere semantica. Natura morta in tedesco si dice Stillleben, dove Still è: Silenzio/Calmo/Immobile e Leben significa Vita.

Natura Morta: Still-leben. A me piace di più come lo dicono i tedeschi.

Veniamo agli equivoci dell’emigrato in terra tedescofona. Ne riporto alcuni personali, i più clamorosi che hanno fatto sbellicare dal ridere i miei amici madrelingua.

Alptraum o Albtraum, che significa Incubo.

Io ero convintissima che l’etimo del primo “addendo” fosse Alpen cioè Alpi e la seconda Traum: Sogno.

Non sopporto le montagne, le vivo con angoscia, come una pressione sull’animo quindi, in maniera ingenuamente autoreferenziale, ho pensato che l’incubo non potesse essere altro che… un sogno alpino!

In realtà Alben sono gli Elfi che, nella tradizione germanica, erano i responsabili dei brutti sogni, mettendosi a cavalcioni sul petto del dormiente e provocando quella sensazione di pressione sul petto…come per me le montagne, appunto!

Ed eccoci al secondo.

Ero in macchina con amici e sento alla radio un annuncio allarmante; «Attenzione, a tutti gli automobilisti in ascolto, sull’autostrada tal dei tali c’è un Geisterfahrer! » Questa parola non l’avevo mai sentita, allora cosa faccio? Quello che qualsiasi straniero farebbe (senza vocabolario a portata di mano; all’epoca gli iPad ed i telefonini non c’erano), ovvero cerco di capirne il significato terzo scomponendo la parola in due.

La parola è composta da: Geister e Fahrer. La prima significa Spirito/ Fantasma, la seconda Autista...

A quel punto non sapevo che pesci pigliare. Escludendo il fantasma alla guida, quel Geister intendeva forse “uno spirituale”, che ne so: un prete!? E cosa potrà avere mai di tanto pericoloso un prete alla guida? Sapevo che le suore al volante portano male, però…

Un fantasma o un prete al volante annunciato alla radio? Non ne venivo a capo. Allora mi feci coraggio e chiesi spiegazioni ai madrelingua.

Non ci crederete. Sapete chi è un Geisterfahrer? Uno che guida contromano!

Ancora; un amico racconta una sera come abbia visto due uomini litigare e, ad un certo punto, uno dà all’altro un misterioso: Ohrfeige. Anche questa volta io, ancora neofita della lingua straniera in questione, non conoscevo quella parola quindi andai per deduzioni.

Ohrfeige. Ohr in tedesco significa Orecchio e Feige significa Fico. Sì, avete letto bene, FICO! adesso mettetevi nei miei panni, cosa avrei dovuto pensare?

Un querelante butta un fico sull’orecchio dell’altro? Gli infila un fico nell’orecchio? Forse una tradizione locale per sfidare qualcuno? In Cavalleria Rusticana, Turiddu morde l’orecchio a compare Alfio come sfida a duello, forse in Germania esiste qualcosa del genere? Si addenta l’orecchio del rivale come si farebbe con un fico?non si sa mai quali usi e costumi abbiano questi popoli oltralpe…

Oppure: gli rende l’orecchio come un fico, quindi gli scazza l’orecchio….

E già mi stavo avvicinando, infatti Ohrfeige significa: Sberla, Schiaffo.

Un’altra volta mi raccontano di un Blinderpassagier che, su un aereo, viene trovato morto assiderato nella stiva . Blind significa Cieco e Passagier significa Passeggero.

Ed io: «Poverino, ma come è successo, ma nessuno l’ha aiutato a salire in aereo?? »

«E perché avrebbero dovuto aiutarlo? »

«Ma siete proprio inumani! Certo che dovevano aiutarlo, quello si è sbagliato perché non ci vedeva ed è finito nella stiva! Poverino, morto assiderato… »

A quel punto vedo tutti i commensali sparire sotto il tavolo e tenersi la pancia in preda alle convulsioni. Non la smettevano più di ridere i maledetti madrelingua!

Un Blinderpassagier è un passeggero clandestino. Ditemi voi come avrei potuto arrivarci. Nemmeno Javier Marias ci sarebbe riuscito.

E dove lo mettiamo il Wasserhahn? Wasser significa Acqua e Hahn significa Gallo.

Non vi racconto la figuraccia che ho fatto con l’idraulico una volta che mi si era rotto il rubinetto della cucina. Pensavo che fosse pazzo visto che, più io gli mostravo il rubinetto dell’acqua, e più lui si ostinava a parlarmi di pollame.

Almeno così credevo, poiché non sapevo ancora che Wasserhahn è la Cannella del rubinetto!

Come dar torto a Twain quando scrive:

“In base ai miei studi di filologia sono arrivato alla conclusione che una persona dotata riesce ad imparare l’inglese (se si esclude l’ortografia e la pronuncia) in trenta ore, il francese in trenta giorni e il tedesco in trent’anni. È ovvio che la lingua tedesca ha bisogno di essere rimodellata e riparata. Se rimanesse così com’è dovrebbe essere accantonata, con dolcezza e riverenza, tra le lingue morte, perché solo i morti hanno tempo sufficiente per impararla.”

Certo che, a prescindere dalla difficoltà intrinseca di una Lingua come il tedesco, la parentela aiuta. Non c’è dubbio che è più semplice imparare una lingua straniera che appartiene alla stessa famiglia linguistica della propria madrelingua.

Idiomi della stessa famiglia linguistica condividono spesso non solo gli etimi ma anche le strutture verbali, ergo la forma mentis del parlante.

Tuttavia attenzione, come si sul dire: “parenti serpenti!” I consanguinei linguistici possono essere estremamente subdoli nelle “parole simpatiche”.

Mi trovavo presso la famiglia di un amico spagnolo, una blasonata famiglia di antica nobiltà castigliana. Era una cena molto formale, con camerieri in livrea e guanti bianchi. Tutta la numerosa famiglia era riunita intorno ad un tavolo riccamente imbandito e si stava sorbendo (silenziosamente) il brodo. Io non sopporto il brodo di gallina, mi fa venire il vomito, quindi avevo evidenti difficoltà a deglutirlo.

Ad un certo punto la padrona di casa, Doña Alicia, se ne accorge e mi chiede:

« No te gusta el caldo de pollo? » arrossendo, rispondo: «Doña Alicia, en verdad estoy embarazada pero… »

A quel punto non riesco a finire la frase che succede il finimondo. Il mio amico inizia a gridare come un forsennato: «No fué yo, no fué yo, te juro Mamá! »

La nonna mi salta addosso ed inizia a tirarmi i capelli dandomi appellativi non propriamente da Signorina per bene, le zie cercano di tenere calma Doña Alicia che, nel frattempo, aveva avuto uno svenimento, allora  -mentre i camerieri vanno a prendere i sali- le sorelle del mio amico ne approfittano e mi trascinano via ed io, assolutamente basita, non oppongo resistenza, mentre vedo la nonna ancora agitare il pugno verso di me.

La parola spagnola Embarazada significa Incinta, Gravida.

Avevo fatto decisamente meno danni a colazione. «Puse el burro en el refrigerador » avevo detto. Peccato che burro in castigliano si dica Manteca e la mia frase significava quindi: “Ho messo l’asino nel frigo”.

C’è anche chi, come il celebre scrittore Saint Exupery durante il suo soggiorno statunitense, ha una certa resistenza ad immergersi completamente in una lingua straniera per paura di “contaminare” o per lo meno perdere l’eccellenza nella propria lingua madre.

La cosa che in effetti terrorizza sono persone di cultura che, dopo anni di soggiorno all’estero, iniziano a perdere la qualità della madrelingua.

Un amico, un compositore russo che viveva in Austria, aveva iniziato ad usare i casi tedeschi anche quando parlava russo, con indignazione suprema di sua madre.

Una volta sentii dire (abominio!) da un pittore italiano che viveva da circa

vent’anni in Germania: “Cappotto da bagno” invece di “Accappatoio”! Evidentemente la sua mente, ormai perversamente alterata dal Tedesco, traduceva dalla lingua straniera in quella d’origine (in tedesco si dice: Bademantel, alla lettera, appunto: “Cappotto da bagno”).

Ho conosciuto intellettuali italiani residenti in Austria ed in Germania che non esitavano a ostentare la loro cultura e si facevano beffe del Tedesco malandato dei loro connazionali meno acculturati. Quegli stessi accademici che poi si facevano sfuggire parole italiane tedeschizzate come “riparature” al posto di “riparazioni” e “polizisti” al posto di “poliziotti”! In questo caso il danno è la somiglianza tra il termine italiano e quello tedesco. Due parole simili che il parlante italiano, per contaminazione fonetica, modifica in un terzo ibrido. Una contaminazione abominevole quanto comprensibile.

Tuttavia le vicinanze geografiche possono dare luogo a neologismi patentati. Ci sono in Austria alcuni termini (guarda caso nell’ambito della gastronomia) con una lampante influenza italiana. Se il Cavolfiore in Germania è il Blumenkohl ecco che in Austria diventa il Karfiol. E se i Fagiolini in Germania sono i Grüne Bohnen diventano in Austria Fisolen. Il sacchetto di plastica che in Germania è Tüte, diventa Säckel in Austria.

La mamma di tutte le domande a questo punto è: quando si può dire di conoscere una lingua straniera? La mia risposta è: mai.

Si potrà parlare e scrivere correttamente quella Lingua, tuttavia rimarrà straniera per il fatto che non è cresciuta con noi.

L’estraneità di una lingua si nota essenzialmente a due livelli. Il primo è nello scherzo, nelle battute, nel gioco verbale improvvisato.

Il secondo livello è quello letterario.

Tutto quello che accade nei primi vent’anni della nostra vita è nuovo. Tutto è una prima volta; dai cartoni animati alla prima cotta, dalle ninne nanne fino all’ esperienza della prima perdita e della morte. Tutto questo è veicolato da una (o più lingue). Come trame di un tessuto, queste Lingue costruiscono il nostro mondo interiore e s’innestano ad un livello irrazionale.

Nel gioco verbale si attinge ad una capacità associativa linguistica istintiva, che difficilmente può essere costruita razionalmente, in età adulta, in una nuova Lingua.

Nella letteratura poi, nonostante una ricerca formale cosciente, si attinge enormemente all’elemento istintuale che è cifra imprescindibile della madrelingua.

Scriveva Percy B. Shelleys: “La lingua è un prodotto spontaneo dell’immaginazione ed ha un collegamento diretto coi pensieri…La lingua parlata è la lingua della psiche.”

Una cosa è scrivere una lettera ad un amico, scrivere un saggio su un argomento specifico usando una terminologia settoriale, altro è scrivere un testo poetico o di narrativa in cui l’autore esplora dimensioni sconosciute.

Che cosa succede nel cervello di uno scrittore che deve trasferire pensieri ed emozioni in una Lingua che non è quella dell’infanzia? (Quando magari nella propria Lingua madre gli articoli non esistono, tanto meno il verbo essere e avere, oppure è un idioma che si esprime per ideogrammi?)

In questo caso, fare letteratura in una Lingua straniera non può essere se non un atto violento o forzato che irrita o addirittura inibisce il livello inconscio della scrittura, forse lo strumento più interessante del fare letteratura.

Lo sapeva la scrittrice ungherese Agota Kristof.

La Kristof fu costretta all’esilio nella Svizzera francese durante l’occupazione del suo paese da parte delle truppe sovietiche. La scrittrice non riuscirà mai a padroneggiare senza errori il Francese; definirà se stessa come “L’analphabète,” in un racconto autobiografico. Eppure, sono proprio la sua sincerità e la sua sensazione d’inadeguatezza a creare una cifra letteraria originalissima.

Gota Kristof ha scelto l’autenticità anche nei suoi limiti, pur di evitare la traduzione e quindi la falsificazione. Quella che J.René Ladmiral  intese con la sua celeberrima provocazione: «Lisez Berman: tout est faux!»

Non ne ha dubbi Elias Canetti. Nato in Bulgaria in una famiglia di ebrei sefarditi che si esprimevano in “spagnoleto”, una forma antica di castigliano con l’innesto di alcune parole ebraiche e turche. I genitori di Canetti, solo tra loro due, parlavano invece in Tedesco. La famiglia emigra in Inghilterra quando Elias compie sei anni, qui inizia la scuola e qui i genitori iniziano a parlare in casa con i figli non più Spagnolo ma Inglese. L’anno dopo sopraggiunge la morte del padre ed è la madre ad insegnare ad Elias il Tedesco, la Lingua “segreta” che aveva condiviso col marito.

Lo scrittore racconta come, in età adulta, i ricordi dei primi anni di vita vengano dalla sua mente automaticamente tradotti dal Bulgaro in Tedesco.

“Non è come la traduzione letteraria di un libro da una lingua all’altra, è una traduzione che si è compiuta spontaneamente, nel mio inconscio, e poiché io evito come la peste questa parola che ha perduto ogni reale significato a causa dell’uso smodato che se ne fa, mi si voglia perdonare se l’adopero in questo solo ed unico caso”.

(Elias Canetti, La lingua salvata. Gli AdelphiEdizioni, 1980. Cfr. Pag.23)

Lo stile letterario nasce probabilmente da una fortuita combinazione di elementi formali e irrazionali, come l’odore inconfondibile ed unico di una certa persona a cui si aggiunga deliberatamente una certa fragranza esterna. Uno stile letterario è la personale rielaborazione di un certo ambiente materiale ed umano, in un certo momento storico, in un certo contesto geografico. Come l’individuo forma e gestisce questo rapporto, come lo sviluppa e lo manifesta nella sua mente prima e attraverso la Lingua poi, spesso con discrepanze enormi, tutto questo crea una buona letteratura.

La verità è che non credo nello scrittore translinguale.

So di star per dare un grande dispiacere agli esperti di traduttologia ma credo che il translinguismo in realtà sia un fenomeno altamente idealizzato.

A parte casi eccezionali che, come si sa, confermano solo la regola, ci sono solo due opzioni possibili che permettono ad uno scrittore di esprimersi liberamente in una lingua diversa da quella materna. Opzioni che mettono in discussione di per sé il translinguismo. La prima non è un’opinione ma un’evidenza scientifica, e cioè che quel certo scrittore abbia avuto contatti con la lingua straniera in un’età compresa tra lo zero e i diciassette anni. L’apprendimento e l’attività cerebrale nei primi diciassette anni di vita è unico ed irripetibile. Una lingua appresa nei primi diciassette anni di vita non si può ritenere una lingua straniera.

Vladimir Nabokov, autore russo, scrive Lolita in inglese. Dalla nascita Nabokov praticava in famiglia il Russo, l’Inglese ed il Francese. Quindi l’Inglese non si può dire che fosse una lingua a lui estranea.

Samuel Beckett scrive Aspettando Godot in Francese. Lo scrittore irlandese iniziò da ragazzino lo studio del Francese al quale oltretutto si appassionò immediatamente. Beckett soggiornerà anche in Francia.

Joseph Conrad, scrittore polacco, scrisse in Inglese. Il padre di Conrad fu traduttore dall’Inglese e dal Francese. Joseph venne in contatto fin da bambino con queste lingue che apprese dal padre. A soli undici anni fu affidato allo zio ed iniziò una lunga serie di viaggi durante i quali fu obbligato all’uso dell’Inglese.

Conosco personalmente lo scrittore austriaco di origine russa Vladimi Vertlib. Vertlib scrive in un Tedesco impeccabile, tuttavia è arrivato in Austria a sette anni e tutta la fase di scolarizzazione e di socializzazione è avvenuta in questo Paese, non in Russia. Sono sicura che Vertlib conosca meglio la grammatica tedesca di quella russa.

Ho avuto parecchi alunni di famiglie miste che vivevano in un terzo Paese, diverso da quello in cui erano nati i genitori. Florinda, di madre giapponese e padre italiano, era nata e cresciuta in Austria. Iniziò a parlare leggermente in ritardo rispetto agli altri bambini, tuttavia quando iniziò ad articolarsi verbalmente gestiva senza alcun problema le tre Lingue. Per Florinda, in realtà, non erano affatto tre Lingue, era una Lingua unica con espressioni che potevano articolarsi foneticamente in tre modi diversi. Quindi per Florinda dire: Gatto, Katze, Neko sarebbe come per noi dire: Gatto, Micio, Felino.

La seconda eventualità è più o meno una truffa: lo scrittore ha un ghostwriter o un editor che gli scrive o riscrive di sana pianta i testi.

È innegabile una predisposizione degli slavi per le Lingue straniere. In Italia nutre di una certa fama Nicolai Lilin. Indagando nella biografia di questo scrittore non ho trovato conferma della mia teoria, quindi Lilin potrebbe incarnare quell’eccezione di cui parlavo. Tuttavia mi chiedo quale sarebbe stato lo stile narrativo di Lilin nella sua madrelingua e se la sua scrittura in italiano sia autentica quanto i suoi racconti.

La soluzione, per scrittori e non, per autoctoni e emigrati è che, alla fine, conoscere le Lingue straniere significa sempre confrontarsi più profondamente con la propria madrelingua. Significa aprire la mente ad altre possibilità intellettive, espressive e sensibili. Hanno ragione sia i tedeschi che gli spagnoli; Fiore e Latte –per i loro rimandi simbolici- non possono che essere di genere femminile; come mai in italiano sono maschili?

Tuttavia rimangono inaccettabili per un italiano una Luna di genere maschile ed un Sole femminile come in Tedesco. Eppure per un madrelingua tedesco è naturale associare la luce del sole -come forza vivificatrice- alla donna e quella lunare -riflessa- al maschio. (È una visione decisamente meno sessista.)

E non sarebbe bellissimo avere, come in spagnolo, due generi per la parola Mare? Una di uso comune maschile: El Mar, ed una di uso poetico di genere femminile: La mar.

Ed allora, conoscendo le Lingue straniere, pronunciando: il fiore, il latte, il mare, si sentirà che, dentro queste parole, c’è molto di più di ciò che abbiamo sempre inteso solo nella nostra Lingua.

Quando se ne parlerà, quando se ne scriverà di “fiori, latte e mare”, si acquisterà in profondità, ricchezza, ampiezza di spirito e -vogliamo sperarlo- originalità di pensiero.

E questo non vale solo per le Lingue straniere ma soprattutto per la madrelingua.

Tempo fa mi capitò per le mani un libro di grammatica italiana della seconda metà dell’800, usato nelle scuole primarie. Con mia sorpresa notai che, all’epoca, l’Italiano veniva insegnato ai bambini italiani come oggi s’insegna agli stranieri adulti. Evidentemente la madrelingua dei bambini italiani poco dopo il 1861era ancora il dialetto e quindi, per esempio, serviva sapere quando un sostantivo maschile richiede l’articolo determinativo lo; evidentemente non era scontato, i bambini non l’avevano memorizzato dall’ascolto.

Mio suocero, nato negli anni venti, ricordava perfettamente di aver studiato alla scuola dell’obbligo l’uso del Tempo Imperfetto, nella sua funzione ripetitiva, temporalmente durativa, imperfettiva e descrittiva, proprio come farebbe uno straniero, un migrante, che si cimentasse oggi con l’Italiano.

Leggendo gli articoli di Aboubakar Soumahoro, ascoltandolo parlare, rimango ogni volta stupita della proprietà di linguaggio e della pregnanza dei contenuti che, troppo spesso, mancano a tanti dei nostri politici nostrani. Soumahoro rientra nella categoria del bilingue, essendo cresciuto in un Paese come la Costa d’Avorio dove per il 70% si parla Francese e per un 30% diversi idiomi africani.

Sono convinta che l’abilità di Soumahoro nella Lingua italiana non sarebbe stata raggiunta senza la conoscenza pregressa del Francese, più affine alla nostra Lingua del baulé o del dioula africani. Tuttavia chiedetevi quanti di noi sarebbero riusciti, a diciannove anni, facendo il bracciante, ad imparare così bene il Francese da conseguire una laurea in Sociologia. Soumahouro, infatti, ha conseguito, col massimo dei voti, una laurea in Sociologia presso l’Università di Napoli.

L’apprendimento della Lingua per il turista non è vitale, per il migrante sì. Dovremmo pensarci più spesso, soprattutto noi italiani che parliamo poco e male le Lingue straniere perfino da turisti.

“Ognuno enumerava le lingue che conosceva; era importante padroneggiarne parecchie, con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella altrui”.

(Elias Canetti: La lingua salvata.Gli Adelphi, Cfr. Pag. 45)

Raffaella Passiatore

Bibliografia:

Elias Canetti, La lingua salvata. Gli AdelphiEdizioni, 1980

J.René Ladmiral: Della traduzione. Dall’estetica alla epistemologia. Mucchi 2013.

Percy B. Shelley: A defence of Poetry. Ginn & Co, Boston 1891.

R.Passiatore: Il tempo leone. Tandem Edition, Salzburg 2013.

M.Twain:The Awful German language.

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