Paolo Rossi e quell’Italia e quel calcio che non ci sono più

by Enrico Ciccarelli

Ho avuto l’onore di stringere la mano a Paolo Rossi otto anni fa in quel di Arezzo. Salutavo allora non solo e forse non tanto il campione invitto, l’unico italiano a potersi fregiare del titolo di capocannoniere in un mondiale (l’immenso Silvio Piola aveva sfiorato il traguardo nel 1938, ma più letale di lui era stato Leonidas, il brasiliano famoso per “ò gol em bicicleta”), ma soprattutto l’eroe eponimo di un’Italia che, in quell’undici luglio del 1982, sdoganava l’amor di Patria, usciva dal cono d’ombra di timidezza e di sottovalutazione cui l’aveva dannata il dopoguerra e il dominio, nel bipartitismo imperfetto, di forze per vario modo ecumeniche o internazionali.

L’Italia uscita dal catino ribollente del Bernabeu, con la Germania non solo sconfitta, ma dominata, si era desta come nell’inno, vi restò per dieci anni, fino a quando la sciagura di Tangentopoli non le spezzò le ali. Si potrà e dovrà dire molto delle tinte fortemente oscure di quella stagione, della volgarità un po’ paesana del nostro nazionalismo fatto di Milano da bere e goliardia geniale di Renzo Arbore, delle schitarrate da strapaese di Toto Cutugno, della scopa in aereo fra Causio, Zoff, Bearzot e Pertini. Ma è fuor di dubbio che l’urlo di Tardelli fu già allora una squilla, una rivendicazione di immortalità. E se lo sentirete, magari accompagnato, come in una geniale pubblicità, dal triplice Vincerò della Turandot eeguito da Pavarotti, capirete che dura tuttora, malgrado le catastrofi e le sventure che ne sono seguite. L’Italia arrivava sul tetto del mondo nell’anno in cui, con la liberazione del generale James Lee Dozier, si scriveva l’atto finale della lunga e sanguinaria parabola del terrorismo di matrice politica. L’anno prima Ali Agca in piazza San Pietro ci aveva annunciato l’arrivo di un altro nemico, ma i suoi fragori erano ancora lontanissimi, e la modernità ci appariva gran cosa, con la Borsa Valori che tramite Everardo Dalla Noce entrava nella nostra vita quotidiana e il ritorno di esponenti non democristiani a Palazzo Chigi trentacinque anni dopo Ferruccio Parri. Bettino Craxi inaugurava la stagione della personalizzazione leaderistica della politica, con il povero Enrico Berlinguer, il cui filo sarebbe stato troncato dalle Parche due anni dopo, che ebbe con il nuovo tempo e le sue sintassi un rapporto di incomprensione e riprovazione al quale la sinistra pagò e paga un altissimo prezzo.

La resurrezione italiana (in parte reale, in parte immaginaria) coincise con la resurrezione di Paolo Pablito (nome che furoreggiò nei registri anagrafici dell’anno). Perché il signor Rossi, che portava fin nel nome le stigmate dell’Italiano medio, lo fu a tutto tondo. Giocatore di provincia che aveva portato il Vicenza (ancora “Lanerossi”) al secondo posto alle spalle della Juve dopo il biennio delle epiche sfide fra bianconeri e granata, era talento strabocchevole e soprattutto intelligenza calcistica sublime, con un istinto impareggiabile per capire dove sarebbe arrivata la palla e farvisi trovare. I suoi gol erano spesso “facili”, perché la difficoltà consisteva nell’essere al posto giusto nel momento giusto, quindi veniva prima. Ai mondiali d’Argentina l’ingresso suo e di Cabrini trasformò l’Italia nella migliore squadra del torneo, che purtroppo affrontammo senza sufficiente birra nella seconda fase, giungendo quarti (anche per le figure barbine dell’immenso Dino Zoff sui tiri da lontano che non ci erano abituali).

Seguirono la cessione rifiutata al Napoli e l’infausta militanza nel Perugia, squadra che come il Vicenza aveva brillato per una sola estate. Nel grigiore umbro Pablito finì nei giri del calcio scommesse: da italiano medio non organizzò e non partecipò se non come spettatore; e da italiano medio si preoccupò solo, in una partita truccata, che gli fosse garantita una doppietta. Si sa come andò: le volanti della Polizia a irrompere negli stadi, un gigantesco lavacro penitenziale, maxisqualifiche a mezzo mondo (all’origine del pessimo europeo casalingo del 1980). Rimase a credere nel reprobo il solo Enzo Bearzot, cuore tenero in ruvida scorza friulana, che lo porto in Spagna, dove, nella noia di Vigo, disputò tre partite incolori, allungate con la prestazione contro l’Argentina, nella quale si mangiò un gol. Ma il Destino era in attesa al Sarrià, contro il magno Brasile, talmente sovraccarico di campioni da sembrare quello del 1958. Tre gol di fattura “rossiana”, di opportunismo e velocità, di lesta furbizia nell’approfittare dell’incredibile errore di Toninho Cerezo. Un martello degli Dei, un Achille pronto a rintuzzare e frustrare gli sforzi dei carioca, due volte in rimonta e tre volte in svantaggio. Il resto, contro Polonia e Germania, fu discesa. Poi una convivenza non facilissima nella Juventus stellare di Boniek e Platini e il malinconico tramonto, accelerato dalla fragilità delle sue ossa, nel Milan preberlusconiano di Farina. Ora l’addio a un mondo che gli riservò in parti uguali fama e dolore, sterminata ammirazione e cattiveria. Serve un epicedio per celebrarne la gloria? No, ci ha pensato Gioann Brera fu Carlo, che su Repubblica descrisse l’azione del secondo gol contro la Polonia (non trovo l’articolo originale, cito a memoria e mi scuso per le possibili imprecisioni), e lo narra inginocchiato al centro dell’area avversaria “quasi per un rito propiziatorio alla Musa Eupalla, e con la fronte polita sospinge in rete” il cross di Bruno Conti. È lì per sempre, ormai; fedele devoto e diletto degli Asi del pallone, che lo hanno accolto nel loro Valhalla con i grandissimi. Addio, Pichichì: il calcio che eri non c’è più, e forse non c’è più nemmeno l’Italia di cui fosti simbolo. Ma ce n’è ancora il lascito di passione e di gioia. E in nome di quello avrai onore di pianti “finché il sole risplenderà su le sciagure umane”.

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