Covid-19: sconforto, ira e gioia di un volontario barese a Padova

by Fabrizio Stagnani

Voleva studiare medicina, superò il test d’ingresso all’Università di Padova, da dieci anni è emigrato lì. Tra le sue passioni il Ninjutsu, disciplina per la quale è Maestro, istruttore, nonché per il CONI ed il C.S.N. Libertas della Regione Veneto responsabile territoriale. Anche per questo ambisce alla specializzazione in Medicina dello Sport, ormai per conquistarla manca giusto qualche CFU e la tesi.

Punta anche in parallelo a diventare “gettonista”, così si appellano nell’ambito coloro che lavorano appunto a chiamata con retribuzione a gettone, in Medicina d’urgenza. Quindi lui non fa parte dello scaglione dei 10.000 neo laureati che sono stati chiamati ad operare nel settore pur non avendo affrontato l’esame di abilitazione alla professione, supplito da tre mesi di tirocinio. E’ un milite, paramedico volontario della Croce Verde, ente vincitrice di appalto per il SUEM, il Servizio di urgenza ed emergenza medica, il 118 insomma. Lui è Rocco Ventrella, pugliese, barese di nascita, come tanti emigrato al nord per studi o lavoro.

Incontrarlo, telematicamente, come ormai già si suole fare per prassi consolidata da pandemia planetaria, risulta proficuo sia per aver modo di analizzare una nuova cartina tornasole della situazione generale, ma anche occasione di confrontarsi con un’altra sensibilità. Come non chiedere quali ragioni portino a fare il volontario proprio in questo periodo ad altissimo rischio in una di quelle che già tempo prima della quarantena imposta a tutta l’Italia era stata additata come zona rossa. “Trovo la medicina d’urgenza stimolante e poi non nego che fa parte di un mio piano di vita. Fare il volontario per la Croce Verde, qui a Padova, è propedeutico per un futuro posto di lavoro.”

L’onestà d’animo del futuro medico, data da una sua innata indole, forgiata probabilmente anche dalle discipline orientali, lo porta a prendere le distanze dalla parola eroe, anche se ogni giorno è al fronte della battaglia contro il Covid19. Senza nulla togliere al sovrumano sforzo messo in campo in queste settimane dalla sua categoria d’appartenenza, Ventrella sostiene che che gli eroi siano quelli che rispettano le regole, quelli blindati in casa per evitare che il virus abbia modo di giocare a staffetta bruciando vite saltellando a bordo di persona in persona, quelli che ogni giorno si inventano un gioco nuovo per intrattenere i propri figli, i lavoratori senza smart working che dormono sui divani per evitare ogni possibile contagio alla propria famiglia. Parole sue.

Di questi tempi un po’ tutti si diventa ipocondriaci, se non lo si è già, o quanto meno apprensivi per il futuro. Avendo a tiro un medico, futuro tale che sia, è difficile resistere alla tentazione di avere risposte in merito alla possibilità di scamparla o meno a questo apocalittico rischio. “Biologicamente è praticamente certo che l’umanità sopravvivrà. L’obbiettivo ovviamente è riuscirci prima possibile, con il minor numero di perdite. Ma a questo si contrappone l’incoscienza dei singoli e delle società. Almeno per noi che non abbiamo scelto la strada dell’immunità di gregge, il mantra è sempre uno: rimanere a casa per chi può, limitare ogni possibile contatto superfluo! Al momento siamo impotenti davanti a questo attacco, la medicina non ha armi. Si sta attuando una terapia sintomatica, ovvero si contrastano i sintomi della malattia, ma contro il Covid19 non c’è antidoto, o meglio vaccino. Le persone che guariscono lo riescono a fare grazie al loro stesso sistema immunitario. Se, come si sente dire ripetutamente, i singoli sono privi di malattie pregresse che entrano in corto circuito diretto con questo virus, se gli individui sono immunocompetenti, non arrivati a livelli di complicanze gravi, riescono, aiutati e supportati dalle terapie sintomatiche, appunto, a debellare il male. Il dramma sta nel lungo periodo d’incubazione che non ne facilita l’arginamento ed il suo altissimo fattore di contagiosità. Per questo ora la migliore soluzione è l’isolamento, la separazione dei contagiati da chi non lo è, al fine di consentire al sistema sanitario di affrontare la crisi senza andare oltre le sue capacità di accoglienza e fare in modo che i focolai si spengano contrastati naturalmente dalle difese immunitarie dei singoli individui ed evitare che se ne accendano altri.”

Quasi a sperare di potersi trovare innanzi ad una rasserenante risposta, parte l’inquisitorio: “Hai paura?”. Il riscontro però non ha che del profondo altruismo e del galoppante professionismo con annotazioni che lasciano riflettere. “Non ho paura che io possa essere già stato contagiato, più che altro ho paura di non sapere di essere infetto rischiando di andare a contagiare altre persone. Ovviamente di ansia ce n’è, ma mi è capitato di avere la prova che in giro non c’è, di fatto, abbastanza paura. Una delegazione di medici cinesi, in visita lo scorso 19 marzo, in una Padova praticamente deserta per gli standard, asseriva che in giro ci fossero troppe persone!”

L’indagine macchiata di provocazione fa emergere sempre qualcosa di politically incorrect, a dire dello stesso interrogato. “Come mai non hai fatto parte dell’esodo dei fuori sede, i “terroni” al nord, chi per una ragione chi per un’altra, che abbiamo visto nelle immagini delle telecamere di sicurezza delle stazioni sgomitare sulle scale per accaparrarsi un posto con destinazione casa della mamma?”. I medici, pur se non ancora laureati, hanno sempre un approcci scientifico. “Tocca sapere che i malati di diabete, spesso hanno problematiche legate all’olfatto e al gusto. Alcuni degli stessi primi sintomi dati dalla malattia che adesso il pianeta si sta trovando a contrastare. Ho una Zia a Bari, Maria Panza, diabetica e per galanteria dirò over 60. Non sono sceso per lei, se si fosse ammalata probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Non sapendo se fossi già stato contagiato o meno, non ho voluto mettere a repentaglio la sua vita come quella di altre persone con le quali sarei entrato in contatto, provenendo io da zone con alta incidenza di rischio. Personalmente ritengo che chi lo abbia fatto sia stato un irresponsabile!”

Chi è segregato fra le mura domestiche, da ormai oltre venti giorni, magari prova a carpire gli stati d’animo di chi è la fuori al fronte da una ripresa del telegiornale di turno, irresistibile chiederne direttamente a chi è in prima linea dall’altra parte di un monitor per un’intervista. “Sconforto, ira e gioia!”. Un cocktail apparentemente stonato, ma frutto di diverse situazioni. “Nella maggior parte dei casi in ambulanza andiamo a soccorrere persone lucide, in grado di camminare sulle proprie gambe, apparentemente solo dispnoiche, saperne deceduta qualcuna dopo esserle stati vicini da sconforto. Ira, davanti all’idiozia. In particolare quella di un paziente che pur sapendo di essere malato di corona virus scopri essersene andato in giro senza neanche una mascherina, prendendo due se non più autobus, per arrivare a comprare due birre. Questo confermato dai Carabinieri. Ira, anche perché quel soccorso, che noi siamo tenuti a garantire anche ad una persona di fatto poi scoperta criminale, ci ha costretti a rifiutare chiamate…comunque poi sempre prontamente prese da altre unità. E poi gioia, si anche, per fortuna, quando l’altro giorno, siamo intervenuti, questa volta nei panni di taxi sanitario, per riportare a casa ben due casi ritenuti stabilizzati e altri due definitivamente guariti che avevo personalmente traghettato nel primo viaggio carico di timori verso l’ospedale.”

Tanto altro ci sarebbe da riportare qui, di fatto, giustamente, se si da parola a chi è in guerra per il bene collettivo questo si trasforma inevitabilmente in un fiume in piena. Si potrebbe raccontare degli affanni per le sanificazioni, le vestizioni, le frontiere delle sperimentazioni, delle teorie che passano dai ricercatori cinesi sui ghiacciai dell’Antartide in discioglimento fra le gocce dei quali si sarebbe potuto annidare ibernato questo Covid19 passando per quelle che parlano di una mutazione del virus da mammifero selvatico a uomo a causa della loro sempre più strette convivenza a seguito dei sconsiderati disboscamenti, ma forse meglio lasciarsi con la parola guarigione.     

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