Firenze con la mascherina e la “buona e onesta compagnia” del Decameron di Boccaccio, che si concede storie, vino e buon cibo

by Michela Conoscitore

Chissà in quante città, soprattutto quelle d’arte frequentate da numeri considerevoli di turisti, vi sarà già capitato di vedere ripetutamente la gente proteggersi con le famigerate mascherine diventate, in poco tempo, un bene di prima necessità. Nei giorni del coronavirus, in Italia, che non soltanto ha monopolizzato i media, ma anche le nostre vite, passeggiare per Firenze equivale proprio a questo, file infinite, fuori e dentro i luoghi simbolo della città, di persone che si proteggono dal virus potenzialmente pandemico, ma probabilmente non così temibile. Il capoluogo toscano, al momento, non rientra nella cosiddetta zona rossa italiana, ma lo è stato un tempo, più di seicento anni fa.

Se la mente è abbastanza allenata alle reminiscenze letterarie, e si fa suggestionare dall’atmosfera fiorentina, il collegamento che viene naturale è sicuramente quello col cronista d’eccezione di quel periodo buio per la città, Giovanni Boccaccio col suo Decameron:

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di mille trecento quarant’otto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere, da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in un altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. Et in quella non valendo alcuno senno nè umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati, e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo, e molti consigli dati a conservazion della sanità.

Allora non c’erano pazienti zero, vaccini e tam tam mediatici (o meglio, isterici), ma solo tanto timore e assenza totale di mezzi per reagire adeguatamente ad una delle patologie più pericolose, vissute dalla specie umana: la Peste Nera. Tra il 1347 e il 1352, in tutta Europa, la peste fece ben trenta milioni di morti, su una popolazione complessiva che ne contava all’incirca ottanta. Firenze, nel 1348, fu tra le città più colpite in Italia, che al termine del contagio subì la perdita di circa sessantamila persone, partendo da una cittadinanza che ne contava centomila. La malattia si diffuse, a macchia d’olio, in tutto il Vecchio Continente annientando le strutture economiche delle nazioni, uccidendone la principale forza lavoro. A proposito di operai, quei pochi che rimasero a Firenze, dopo l’epidemia, poterono chiedere cifre esorbitanti per il lavoro svolto, proprio perché la città doveva necessariamente ripartire.

Anche in quel caso, l’epidemia si diffuse a partire dall’Oriente ma giunse, nella sua forma più virulenta, proprio in Europa. I centri più importanti e rigogliosi si trasformarono in deserti urbani dai quali l’unica ambizione possibile, era quella di fuggire. Quel che mise in scena Giovanni Boccaccio con la sua opera più famosa: risulta facile immaginare il gruppo di giovani donne, appartenenti alla borghesia, incontratesi in una piazza di Santa Maria Novella pressoché lugubre e soffocata dalla paura, che decidono di rifugiarsi in campagna, in una villa sulle colline che circondano Firenze, con altri tre amici, “per tener loro, buona e onesta compagnia”.

Se i protagonisti del Boccaccio decisero di allontanarsi dalla città, altri, invece, vi rimasero praticando una vita quasi eremitica, adducendo le cause della pandemia alla cattiva condotta umana, e quindi considerato un flagello di Dio, e concedendosi solo buon cibo e buon vino:

E erano alcuni li quali avvisavano che il viver moderatamente, e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente [la peste] resistere: e fatta lor brigata, da ogni lato separati viveano; e in quelle case ricogliendosi e rinchiudendosi dove niuno infermo fosse, e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando, e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno, o volere di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quelli piaceri che aver poteano si dimoravano.

Una volta giunta al palagio, la brigata deve decidere come trascorrere le giornate, e Boccaccio, rifacendosi ai Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, trasforma il tempo della pestilenza in quello del primato dell’uomo, anzi dell’Umanesimo, sulla morte, imprevedibile e violenta. Lo scrittore fiorentino appartiene ancora al Medioevo, ma il suo Decameron, professando una filosofia laica che si sgancia da quella ecclesiale della dantesca Divina Commedia, presenta le prime istanze di Rinascimento, ovvero la centralità dell’uomo che si basa essenzialmente sulla fortuna e sull’amore.

Non potrebbe essere altrimenti, visto che il morbo pestilenziale travolse improvvisamente ogni cosa, condannando gran parte della popolazione alla morte, spesso nel fiore degli anni. Boccaccio, quindi, attraverso le novelle, ben cento, snocciola ai suoi lettori, anzi lettrici, quelle che all’epoca, in maggioranza, leggevano libri, i motivi per cui vale la pena vivere. In un’esistenza, come quella sperimentata dagli uomini del Trecento, condizionata dall’ingiusta fatalità della Peste Nera, i ragazzi del Boccaccio si riuniscono per raccontarsi novelle, rifugiandosi non nei ricordi della vita com’era, ma tratteggiandone ora gli aspetti più comici, ora quelli più malinconici e tristi, ricordando le grettezze, ma soprattutto le immense dolcezze di cui è capace l’umanità quando ama:

Amor può troppo più che né voi né io possiamo.

IV giornata, novella I

Un mondo ideale quello di Pampinea, Fiammetta, Filostrato e gli altri, da cui ricominciare per superare un momento in cui si è perso molto ma che rappresenta, allo stesso tempo, un nuovo inizio, una volta comprese le vere ricchezze della vita.

È […] meglio fare e pentere, che starsi e pentersi.

III giornata, novella V

Per chi ci ha visto essenzialmente frivolezza, e non ha riconosciuto una delle opere più importanti della nostra letteratura, basterebbe soffermarsi e riflettere sulla frase soprastante, e poi decidere se il Decameron, messo all’indice dei libri proibiti dalla Chiesa (quella che, così scanzonatamente, Boccaccio aveva disapprovato, preferendogli la sapienza del carpe diem) trecento anni dopo la sua pubblicazione, sia davvero solo un testo umoristico e lascivo del 1300, oppure un inno alla vita e alle sue gioie, terrene, sensuali, vitali e semplici. Oggigiorno più semplici, sicuramente, delle immotivate spedizioni in farmacia alla ricerca di mascherine e gel disinfettanti per le mani.

Consigli cinematografici per tempi pandemici:

Il Decameron, Pier Paolo Pasolini

Meraviglioso Boccaccio, Paolo e Vittorio Taviani

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