I telefoni bianchi di Amedeo Nazzari

by Orio Caldiron

Amedeo Nazzari il suo ingresso nel cinema bianco lo deve all’intuito di Peppino Amato, all’occhio lungo di un produttore geniale che nell’eroe tutto d’un pezzo sa vedere per primo la scintilla dell’ironia necessaria al personaggio da salotto.

Il film «formidabile» in cui avrebbe potuto indossare per la prima volta lo smoking, anzi, secondo la fantasiosa pronuncia del produttore napoletano, lo smokìng, è Assenza ingiustificata (1939) di Max Neufeld, uno dei maggiori successi di fine decennio che consacra la coppia Nazzari-Valli, giocando maliziosamente sulla differenza d’età. Amedeo porta benissimo i suoi trentadue anni. Sullo schermo come nella vita, Alida è una splendida diciottenne, segnata dalla folgorante, carnale fotogenia, che sin dagli esordi la rende inconfondibile tra le attrici di allora.

ALIDA E AMEDEO

Se si esclude la scena del matrimonio, in cui l’aitante dottore sposa la studentessa, Amedeo – era nato a Cagliari il 10 dicembre 1907 e morirà a Roma il 5 novembre 1979 – non ha molte occasioni di sfoggiare lo smoking, mentre Alida è spesso «addobbata come un altar maggiore», costretta a indossare cappotti spropositati, corsetti costellati di bulloni e di pungiglioni d’acciaio, camicette svolazzanti di uccellini che fanno all’amore. Sarà un caso, ma, la complicità tra i due, nata sin dalle prime giustificazioni firmate dal medico per dovere d’ufficio, si rinnova quando dopo il matrimonio lei torna tra i banchi con i suoi semplicissimi vestiti da scolaretta. Il finale, con il marito che l’aspetta fuori dalla scuola, è la trovata più memorabile, il segnale di maliziosa tenerezza che suggella la grazia scorrevole e capziosa della commedia.

Solo pochi mesi prima era uscito senza particolare clamore La casa del peccato (1939) di Max Neufeld, ch’era sembrato muoversi sui binari già ampiamente sfruttati del cinema mondano. Saloni, scalinate, locali alla moda sono gli stessi di tanti altri film del periodo firmati dallo scenografo Gastone Medin. Alida, non ancora protagonista, anzi poco più di una ragazza-pretesto nei fragili marivaudages dell’intreccio, s’incontra qui per la prima volta con Amedeo. A proposito dello smoking, poi, è proprio in La casa del peccato, anch’esso prodotto da Peppino Amato, che appare a più riprese indosso all’attore, insieme all’impeccabile papillon. Il trionfo del film successivo fa dimenticare a tutti la prova generale del prototipo meno fortunato. Occorre dire che il “peccato” del titolo è tutto di testa e che i colpevoli sono soltanto immaginari?

L’AMERICAN DREAM

Il cinema bianco ha un debole per l’evasione, ma, se evade, evade altrove, nell’altrove del sogno. L’american dream? Solo in parte, perché l’America autarchica è un’America caramellosa e manierata, che può anche sconfinare nella parodia. Come avviene nel carcere modello della sperduta provincia statunitense di Cose dall’altro mondo (1939) di Nunzio Malasomma, in cui Amedeo Nazzari è un improbabile superpoliziotto che si spaccia per Jack Morrison, l’uomo-mitragliatrice. La presa in giro dell’“altro mondo” non potrebbe essere più strampalata, ma si vede che l’attore si diverte, senza perdere il suo contagioso sorriso da charmeur.

Sulle attrattive del fascino s’impernia anche la trasferta similamericana di Dopo divorzieremo (1940) di Nunzio Malasomma. Sullo sfondo del pensionato, in cui il Grande Emporio Everybody di New York ospita le proprie commesse, il ménage à trois di Amedeo Nazzari, Lilia Silvi, Vivi Gioi funziona a meraviglia tra una bacchettata all’ipocrisia puritana e una schermaglia tra innamorati. Il film si vede oggi con piacere anche grazie alla stralunata scorrevolezza con cui mescola ingenuità e malizia, testo e sottotesto. Amedeo che tenta di riparare l’apparecchio telefonico con la chiave inglese è irresistibile. Come quando flirta sfacciatamente con tutte le ospiti, che se lo contendono, dalla direttrice alla donna delle pulizie. Se la sospirosa filosofia da boudoir che discetta sul matrimonio dolce chimera e sulle fatiche della prima notte, è insopportabile, la lambiccata messinscena da musical è tipica della cadenze iperboliche del cinema bianco. Dove il vestito fa il monaco. Se quando si veste da gran dama anche Lilia Silvi diventa bellissima, Amedeo lascia gli abiti da vagabondo per il frac e diventa subito il grande musicista che dirige con curiosi gesti isterici la sua orchestra sincopata. Naturalmente, senza smettere mai di fare gli occhi dolci alle signore.

LA SEDUZIONE DEL SOGNO

La seduzione del sogno, contrapposta alla prosaica realtà, è al centro di Centomila dollari (1940) di Mario Camerini, in cui l’ammirato maestro della commedia anni trenta rifà il verso al cinema bianco sfuggendo solo in parte alle trappole di un genere insidioso. Il contrasto tra i due modelli, così diversi nonostante le apparenti somiglianze, alimenta l’interesse di un film garbato e diseguale, che si anima nel gioco delle contraddizioni e delle varianti. Amedeo incarna, con la sfumata energia e l’elegante sicurezza che gli è propria, il miliardario americano che si innamora di Assia Norris, la centralinista dell’albergo di Budapest in cui è di passaggio. Nonostante si sprechino gli stereotipi di una comicità a scatti pochissimo cameriniana, da quando si aprono le porte girevoli del Grand Hôtel si avverte che i protagonisti hanno un appuntamento con il destino, sono pronti a lasciarsi alle spalle il chiassoso cicaleccio su dollari e pengos per rispondere al richiamo di una musica più profonda e insinuante.

CASCO E OCCHIALONI DA PILOTA

Non basta moltiplicare i vestiti da sera per nascondere la mise da pilota, con tanto di casco e occhialoni, il costume di scena a cui l’attore deve almeno in parte la sua affermazione divistica. Senza contare le divise militari, dalla cavalleria alla fanteria, e i tanti costumi d’epoca dei film precedenti e successivi, è la tuta da pilota che ritorna a più riprese per ricordare il battesimo del fuoco di Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, uno dei suoi primi, grandi successi. Non è un caso che in Centomila dollari, mentre il celebre trasvolatore al suo servizio si distrae pensando alla famiglia lontana, il miliardario affronti temerariamente la tempesta con un piccolo aereo privato, buttandosi alle spalle le transazioni finanziarie per scommettere finalmente sulla propria felicità. Non siamo in Ungheria, ma nella campagna romana con Giorni felici (1942) di Gianni Franciolini, in cui il pilota atterra per un guasto al motore, scombinando la vita sentimentale dei giovani in vacanza nella villa. Nonostante le acrobazie della macchina da presa, l’impianto teatrale rischierebbe di soffocare la vivacità della trovata centrale se non ci fosse Amedeo, perfettamente a suo agio nel ruolo di aviatore che, con la tuta bianca e il fazzoletto rosso al collo, sembra materializzare alla lettera i sogni romantici di Valentina Cortese e di Lilia Silvi. Seducente, sornione, ammiccante, il pilota si comporta come un fantasma, sia pure un fantasma solare, diurno e almeno apparentemente non notturno, quasi un personaggio di un altro film, finito per caso tra gli equivoci sentimentali e i refrain farseschi della commedia, ma pronto a andarsene perché tutto torni come prima.

NAZZARI È PROPRIO NAZZARI

Siamo a due passi dallo svelamento che avviene con Apparizione (1943) di Jean de Limour, in cui Nazzari è proprio Nazzari, «Názzari». «No, Nazzàri, prego», il divo che appare nel ruolo di se stesso. Non c’è l’aereo, ma anche qui è un guasto al motore che lo costringe a fermarsi con la sua automobile in un piccolo paese di provincia. Si moltiplicano fin dall’inizio i segnali metacinematografici, che fanno del film una rara occasione di autoriflessività nello scenario dell’epoca. Lo stesso meccanismo della fotografia di gruppo – con le sottolineature tecniche dell’ “accendi” e “spegni”, della luce e del buio, il dettaglio in primo piano dell’apparecchio fotografico pronto a scattare – sembra alludere ai rituali del set. La stanza delle cervellotiche invenzioni di Paolo Soppa insiste in modo ridondante e deformato sul ruolo della tecnica, sull’importanza del dispositivo che è alla base del gioco dell’immaginario. Non appena tutti hanno capito che Nazzari è Nazzari, si scatenano i prevedibili rituali del divismo, gli stereotipi obbligati della liturgia stellare, dalle richieste di autografi alla vicinanza con il divo quasi per poterlo toccare, al feticismo nei confronti della sua automobile, amorevolmente ispezionata come una componente importante del sogno a occhi aperti.

Nelle risentite affermazioni di Massimo Girotti che odia il cinematografo, come nelle prime reazioni di Alida Valli che ne è invece affascinata, il film si interroga sul pubblico e sullo spettatore, s’insinua tra i meccanismi dell’identificazione con le ombre dello schermo, suggerisce dubbi e perplessità su «quello che avviene nel cuore e nella mente» delle «piccole e stupide ragazze di provincia» che affollano le sale. Sono quelle che vedono tre o quattro volte tutti i film di Nazzari con una partecipazione onnivora e totalizzante che suscita lo sdegno dei fidanzati gelosi. Nessun altro film dell’epoca sembra spingersi come questo fin dentro la sala buia per affacciarsi sulle modalità del consumo cinematografico, sulla bonaria cannibalizzazione dei divi.

UN GARY COOPER ITALIANO?

Nella fitta filmografia dei secondi trenta e dei primi quaranta, l’attore è sempre stato fedele allo stesso personaggio di uomo semplice, rude, spicciativo ma di gran cuore, capace, nell’occasione, di diventare eroe. Un Gary Cooper italiano – il modello a cui si è sempre ispirato – che sa difendere i colori della propria squadra. Ma nei telefoni bianchi, da Assenza ingiustificata a Apparizione, è sopra le righe, se la ride sotto i baffi, si diverte a sottolineare una battuta, a accentuare uno sguardo. Se non smentisce l’immagine del divo buono, gli è estraneo il sussiego del moralista anche quando, per esigenze di copione, deve far rinsavire le fans più scatenate. Sul personaggio dell’uomo semplice, almeno in alcuni di questi film, prevale l’attore. Più brillante, più leggero, più estroso del solito. Quasi che nel modello (etico?) del Gary Cooper autarchico si sia insinuato un inatteso coté Cary Grant. Con la voglia di sbizzarrirsi, anche per bilanciare i tanti ruoli seri (seriosi?) della sua carriera.

NAZZARI E GIROTTI

Anche con qualche novità. Il prototipo della italianità non esita a riconoscersi in un cinema tra l’europeo e il mitteleuropeo confezionato negli studi nazionali da registi austriaci e francesi, da tecnici cecoslovacchi, tratto da commedie ungheresi, tedesche, francesi. Quando non si mette a fare l’americano, cavalcando la contraddizione tra vecchio e nuovo, tra modernità e tradizione, tipica di un cinema che sulle arie di Cesare A. Bixio coniuga l’arredamento avveniristico della sophisticated comedy con il gretto passatismo della morale delle vecchie zie. Se tutto rimanda al sottotesto (dalle clamorose differenze d’età a qualcosa di simile alla “proposta indecente”, si moltiplicano i sottofondi e i lapsus consapevoli e inconsapevoli, in una sorta di boite à sourprise che, batti e ribatti, fa venire continuamente a galla il rimosso), è esemplare la souplesse con cui l’attore si muove tra allusioni erotiche e riferimenti sessuali, senza mai concedere nulla alla volgarità. Certo, si capisce che i giochi sono fatti, rien ne va plus, siamo ormai in chiusura d’esercizio. Apparizione è, in questo senso, il punto di non ritorno. Quando, nel garage dell’albergo, Nazzari e Girotti discutono animatamente sui miti e le realtà del cinema, non si dicono forse niente di clamoroso. Ma l’incontro-scontro tra il numero uno di Cinecittà e il Gino di Ossessione (1943) di Luchino Visconti segna la fine di un’epoca.

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