Lucia Raffa e le vittime della spagnola di cent’anni fa

by Enrico Ciccarelli

Poche cose come la pestilenza sono in grado denudare la vernice di civiltà di cui siamo ammantati, di far tacere la corteccia cerebrale sottomettendola alle pulsioni senza controllo del sistema limbico.

Il terrore ancestrale della malattia, del contagio, del misterioso disegno punitivo dei poteri celesti. Si tratti dell’arciere Apollo che al campo Acheo viene a vendicare l’oltraggio a Crisa o dell’Arcangelo che rinfodera la spada torreggiante su Castel Sant’Angelo; sia la segreta filigrana sottesa alle novelle dei dieci narratori nella campagna fiorentina o il lavacro che scioglie le diverse vicende dei Promessi Sposi; sia il colera dell’amore narrato da Garcìa Marquez o l’immaginario morbo che Albert Camus colloca a Orano negli anni Quaranta del secolo scorso, la peste, il morbo, la pandemia esercitano una paurosa suggestione, un terrorizzante fascino sul genere umano, su chi lo osserva, su chi lo narra.

Intanto perché salta agli occhi una verità fondamentale: checché ne dicano le pubblicità televisive di farmaci anticolesterolo, liberatori della prostata e vindici del raffreddore, sappiamo pochissimo del corpo umano, del suo metabolismo, del suo funzionamento.

Restano in larga misura misteriosi i meccanismi attraverso cui un determinato virus ci uccide, sui tempi e i modi di apprendimento con cui il sistema immunitario si attrezza per combatterlo, sulle autolimitazioni che il virus impone progressivamente alla propria virulenza, per venire a patti con l’organismo ospite per non ucciderlo venendo a sua volta ucciso. Intendiamoci: il lavoro della scienza medica è prezioso, il contributo della profilassi, delle condizioni igieniche, della salubrità dell’alimentazione sono decisivi. Ma siamo sempre ciechi affacciati su un abisso oscuro. Da esso sale ogni tanto un nemico che ha per sé la tenebra, che colpisce con la slealtà e l’abilità di un sicario. Che si muove secondo schemi e mappe a lui solo cognite, che il nostro decisionismo cerca di svelare o cancellare con rimedi più o meno adeguati o risibili.

L’epidemia di Covid-19 è in tutto e per tutto simile a quelle che l’hanno preceduta e a quelle che la seguiranno: di diverso c’è solo l’immediatezza della sua conoscibilità di fenomeno e la vastità del network che prova ad arginarla. È però la prima che si presenta nell’era dei social, che permette di toccare con mano l’erompere delle superstizioni e delle stupidità. La principale fra esse è l’immediata ripulsa dell’untore: l’odio nei confronti della comunità cinese (per fortuna fin qui relegata a pochi squallidi e isolati episodi) fa pendant con l’odio sociale per il presunto paziente zero del focolaio lombardo, il manager proveniente da Shanghai che nella sua opulenza ha svolto al proprio ritorno la vita di sempre. L’agiato incosciente si è rivelato in realtà del tutto estraneo, ma cosa volete che importi?

L’importante è che si possa usare anche questo pretesto per maledire la modernità, per deprecare la contaminazione con il diverso, per esecrare la globalizzazione, madre di tutti i mali. Peccato che la peste nera che fra il 1346 e il 1353 uccise un terzo della popolazione europea del tempo, con venti milioni di vittime stimate, compisse il suo massacro senza alcun bisogno di frontiere aperte. E che tali frontiere fossero non soltanto chiuse, ma ferocemente guerreggiate al tempo della più violenta e letale pandemia conosciuta nella storia umana: quella passata alla storia come febbre spagnola. Fra l’inizio del 1918 e la fine del 1919 questa pestilenza (che di spagnolo aveva solo il nome) uccise in Italia almeno 600mila persone e nel mondo circa 50 milioni, più del triplo di tutte le vittime della Prima Guerra Mondiale.

Le stime sono di necessità imprecise, naturalmente: non solo le organizzazioni sanitarie mondiali, ma anche gli uffici dell’Anagrafe avevano strumenti e assetti assai più rudimentali. A complicare ulteriormente la cosa, il fatto che il divampare della prima ondata della Spagnola avvenne a conflitto ancora in corso, con gli organi di informazione sottoposti a rigorosa censura. Il nome della pandemia venne proprio da questo, dal fatto che le prime notizie intorno ad essa comparvero sui giornali della neutrale monarchia iberica (lo stesso Re fu tra i contagiati). Anche qui, malgrado i forti sospetti sul ruolo degli eserciti in armi e in trincea come vettori del morbo, è difficile chiamare in causa una globalizzazione assai di là da venire. Qualcuno chiama in causa, tanto per cambiare, i cinesi: alcune migliaia di essi, infatti, vennero chiamati a contribuire allo sforzo bellico nordamericano; ma la pista appare assai fragile. I virologi ritengono che, come tanti altri virus, quello della Spagnola sia apparso nelle sterminate lande e fra le sterminate moltitudini dell’Asia Centrale. Ma probabilmente non lo sapremo mai con certezza.

Inferiamo dalle statistiche che sia stata una pestilenza particolarmente crudele e beffarda: a differenza delle epidemie tradizionale, infatti, non avrebbe colpito soprattutto persone anziane e debilitate, ma giovani adulte e adulti. Una peculiarità spiegata dal fatto che a determinare la morte dei colpiti fosse causata da una “tempesta di citochine”, è a dire da una reazione violenta del sistema immunitario.

Stando alle malcerte statistiche, mezzo miliardo di persone sarebbe stata contagiata dal morbo, la cui estensione geografica spaziò dalle isole della micronesia ai territori del Circolo Polare Artico. Né prima né dopo di allora l’umanità ha conosciuto un simile flagello. A dire quale sia stato il ruolo della globalizzazione, basta ricordare che la pandemia influenzale del 2009, la cosiddetta “febbre suina”, ha contagiato circa mezzo milione di individui, con circa 6mila morti. Il ceppo del virus (tipo A, sottotipo N1H1) era lo stesso della Spagnola.

Sempre parlando di globalizzazione, la pandemia colpì anche luoghi insospettabili dal punto di vista della loro apertura al mondo.

Fra le vittime della Spagnola, per esempio, ci fu Lucia Raffa, una giovane donna e madre sconosciuta ai più, il cui cognome forse rammemorerà ai foggiani una via periferica intitolata a un eroe della Grande Guerra (che era suo fratello o forse suo cugino Vito). Per me non era una donna qualsiasi, però. Era mia nonna, la madre di mio padre, e viveva a Sant’Agata di Puglia, sui crinali nei quali la Daunia cede il passo all’Irpinia. Lucia, che com’era d’uso ha trasmesso il suo nome alla mia sorella primogenita, era di Accadia, e aveva seguito suo marito, Francesco, nel Paese della Pretura dove mio nonno svolgeva il suo ufficio di magistrato. Mio padre aveva circa due anni e mezzo quando lei morì e mi ha sempre detto di non ricordarne il viso (noi lo conoscevamo attraverso una di quelle foto di un tempo, perfette nel loro bianco e nero).

Rimasto vedovo, condizione che all’epoca destava un’educata riprovazione, mio nonno sposò la sorella minore di lei, Enrichetta, a cui devo a mia volta il mio nome. Più che all’amore, la scelta penso fosse dovuta all’opportunità di non dividere i fondi e i vigneti delle rispettive famiglie. La Spagnola passò, la guerra finì. Il genere umano uscì dai rifugi mentali e fisici che aveva allestito e tornò a credersi padrone del mondo, come sempre. Fino alla successiva asiatica, aviaria o simili che torni a ricordargli la sua precaria condizione. I nostri organismi e le nostre società affrontano il Covid-19 con risorse ed energie ben superiori a quelli di cent’anni fa. Ma il nostro animo e il nostro cervello non sono cambiati poi molto. 

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