Dolores Prato, la vita resistente della scrittrice dell’abbandono

by Caterina Del Grande

Nell’agone ho sempre vissuto, mai vincitrice, mai vinta, ma sempre resistente.

Dolores Prato ha vissuto una vita di grande solitudine e precarietà, figlia illegittima nata da una relazione extraconiugale, segnata dall’abbandono in tenera età e dal costante senso di estraneità e inadeguatezza rispetto al mondo circostante, la scrittrice ha canalizzato il presagio di un destinato eccezionale e tormentato in una scrittura quotidiana e resistente. Dolores Prato non ha mai smesso di scrivere.

Voce fuori dal coro nella cultura del Novecento, ha saputo raccontare la provincia italiana con una profonda sincerità scardinando le regole letterarie precostituite in favore di una narrazione autentica e viscerale.

Dolores Prato è anche un caso letterario suo malgrado. Il riconoscimento per la “triste Dolores” arriva tardissimo. Ha 90 anni quando diventa famosa con Giù la piazza non c’è nessuno.

Dolores nacque a Roma il 12 aprile 1892 dalla relazione extraconiugale di Maria Prato, vedova con cinque figli, con un avvocato che aveva un’altra famiglia e non la riconobbe.

Viene affidata prima a una balia e poi a un cugino della madre, un canonico che viveva con la sorella a Treja, come allora si chiamava la cittadina marchigiana. Nel 1905 gli zii la mandano al Collegio Salesiano della Visitazione, una scuola molto prestigiosa per l’epoca ma in lei acuì il senso di abbandono.

Laureata in lettere a Roma, nel 1919, ha insegnato in varie città italiane. Si oppose con tutte le sue forze al fascismo e non prese mai la tessera nemmeno dietro numerose pressioni. Visse prima a Milano e poi a Roma, dal 1930, dove è rimasta per tutta la vita. Nei primi tempi insegnava all’Istituto Marymount ma a causa del suo cognome, ritenuto a torto di origine ebraica, venne costretta a lasciare la scuola e vivere in maniera precaria, collaborando con vari quotidiani, impartendo lezioni private prima di diventare assistente di una giovane con disabilità. Il suo appartamento fu un punto di ritrovo per intellettuali antifascisti. Finita la guerra, iniziò a scrivere articoli culturali per Paese Sera e per Il Globo.

Non ha mai trovato un editore disposto a pubblicarla nonostante fosse segnalata in vari premi. Ha pubblicato a sue spese i primi due libri, nel 1963, Sangiocondo che aveva ottenuto una segnalazione speciale al Premio Prato nel 1948 col titolo Nel paese delle campane, e, nel 1965, Scottature, racconto lungo, che aveva vinto il Premio Nazionale Stradanova.

Soltanto nel 1980, ormai ottantasettenne, riuscì a farsi pubblicare da Einaudi Giù la piazza non c’è nessuno, lunga narrazione autobiografica dedicata all’infanzia trascorsa a Treia a cui aveva lavorato incessantemente dal 1973, attingendo dal suo archivio personale di ricordi, memorie e documenti.

La versione, fortemente ridotta da Natalia Ginzburg, divenne un caso letterario forse anche per l’età avanzata della scrittrice considerata “esordiente’.

Come scrisse Lalla Romano fu questo, forse, lo sbaglio della critica: enfatizzare troppo l’età della scrittrice invece della struggente bellezza del racconto autobiografico. Il romanzo è la ricostruzione di un mondo e di anni perduti, la cronaca dettagliata della vita quotidiana d’un piccolo paese italiano alla fine del diciannovesimo secolo. Impietoso, pungente e fluido prende forma attraverso metafore e la costruzione di stilemi e parole nuove fortemente evocative in una sorta di flusso di coscienza. Il romanzo venne tradotto in diversi Paesi, con un apprezzamento particolare da parte della Francia. Fu un romanzo molto amato e apprezzato. Solo Dolores ne fu scontenta.

«Alla Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. […] Lei ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due». Sono le parole scritte da Dolores Prato nel 1980 al direttore dell’«Espresso», in risposta a un articolo in cui veniva definita «rabbiosa» nei confronti di Natalia Ginzburg. 

Continuò fino alla fine a rivedere il testo che venne pubblicato per intero soltanto dopo la sua morte, grazie a Giorgio Zampa nel 1997, saggista e germanista, editor di Eugenio Montale che ha curato anche l’edizione di Le ore, il seguito incompiuto di Giù la piazza non c’è nessuno.

Anche gli ultimi giorni di Dolores furono segnati dalla solitudine. Durante una passeggiata si chinò incautamente per cogliere un fiore candendo rovinosamente a terra e fratturandosi un femore.

L’operazione non andò bene. Dopo una lunga degenza in ospedale, una lontana nipote la fece ricoverare in una casa di riposo ad Anzio. Per sostenere i costi dell’assistenza, la nipote decise di affittare l’appartamento di Dolores e lo svuotò in fretta e furia senza dire nulla alla scrittrice. Fu così che molti dei suoi manoscritti andarono perduti.

Dolores chiese ripetutamente e invano fino alla fine dei suoi giorni di poter tornare a casa sua ma morì nella casa di riposo.

Morì 13 luglio 1983. Una parte consistente delle sue carte sono conservate all’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux di Firenze.

«Prato aveva la perentorietà, che poteva diventare asprezza, di chi non accetta le leggi usuali della vita i compromessi, le piccole e grandi viltà, aborriva le espressioni pietose, le parole di compassione. A 90 anni, quando potei frequentarla, era irriducibile, temeraria, esigentissima, avversa a ogni forma di prevaricazione (…) ma dolcissima in certi abbandoni che la facevano apparire senza età» (Giorgio Zampa).

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