Giuseppe Tornatore, la grande affabulazione

by Orio Caldiron

Sullo sfondo del set tunisino di Baarìa, l’assolata scenografia che ricostruisce gli edifici, le strade, le piazze, gli spazi suggestivi e sfuggenti di Bagheria, Giuseppe Tornatore e Ferdinando Scianna discutono dei rapporti tra memoria, cinema e fotografia quando il film è ormai finito e si possono confrontare le esperienze diverse e vicine dei due baarioti, del grande fotografo amico di Sciascia e di Cartier-Bresson e del regista che per quasi tre anni si è immerso in uno dei più ambiziosi progetti della sua carriera, nella sfida della sua vita.

Nel bel libro pubblicato da Contrasto nel 2009, Baarìa Bagheria. Dialogo sulla memoria, il cinema, la fotografia, sono subito d’accordo sulla natura mitopoietica, affabulatrice, immaginativa della memoria, anche quando paradossalmente sembra affidarsi alla filologica adesione del visibile al reale. Il progetto di film sulla storia della propria città, a lungo rimosso, prende il via dalla grande quantità di appunti raccolti nel corso degli anni, per accorgersi alla fine cha a imporsi sono soprattutto i profumi, le luci, le sensazioni, le facce in una specie di “sublimazione fantasiosa” dei propri ricordi e delle storie che gli altri gli avevano raccontato.

Se i suoi film precedenti si erano organizzati intorno a una drammaturgia forte, esuberante, scandita, questa volta la frammentarietà della memoria cerca la propria struttura narrativa nel “sottotesto emozionale della storia, in una struttura caleidoscopica, dove i protagonisti della vicenda sono ripetutamente messi in ombra dalle figure marginali che gli rubano la scena”. Nei meccanismi labirintici della memoria, il presente rimanda al passato e al futuro, mentre i personaggi si avvicendano in una complessa strategia di entrate e di uscite che aspira al mito ma trova spesso la sua dimensione nello stereotipo. Il libro è importante anche perché ripercorre la formazione del regista che da spettatore onnivoro del cinema in sala o alla tv passa precocemente al lungo apprendistato accanto al  mitico fotografo Mimmo Pintacuda, alle prime fotografie con la Rolleicord con cui impara a guardare, scopre il punto di vista, metabolizza la composizione dell’immagine prima di arrivare al documentario e al reportage televisivo, sullo sfondo della sicilianità vissuta come modello identitario ma anche come mitologia.

Il camorrista (1986) il film dell’esordio nel lungo, è quello che maggiormente risente della stagione politica del giovane Tornatore, del pedinamento cronachistico del fotografo, del lavoro accanto a Ferrara per Cento giorni a Palermo (1984). Ma l’istant-movie sul boss della camorra, tra l’omicidio Viscido e il sequestro Cirillo, cede ben presto il passo al ritmo sostenuto del cinema gangsteristico americano in cui spericolati movimenti di macchina rimandano al tracciato emozionale del melodramma intriso di violenza e di sangue. Nell’anemico panorama del cinema italiano di fine anni ottanta è un debutto che dice molte cose sull’autore, sull’amore per le sfide più impegnative, sulla passione per il cinema-spettacolo che cresce nel rapporto con un produttore importante, sull’interesse per l’artigianato cinematografico e i generi forti in grado di rapportarsi al pubblico in sala.

Il tema della memoria è al centro di Nuovo Cinema Paradiso (1988), ambientato nel paese immaginario di Ciancaldo che trasfigura la Bagheria dell’infanzia, dove l’esperienza della sala è fondamentale anche quando si allarga al plein air della piazza. Cinema e memoria si intrecciano e si confondono nella cinefilia, non in quella autoriale dei circoli del cinema e dell’associazionismo, ma piuttosto nella capacità di reazione del pubblico che piange e ride con i grandi comici, i mélo nazionalpopolari, applaudendo ugualmente Totò e John Wayne, Visconti e Fellini, Chaplin e Matarazzo. Il rapporto tra il piccolo Salvatore e il proiezionista Alfredo, tra Cascio e Noiret, è il centro nevralgico del racconto che, assieme alla proverbiale sequenza dei baci tagliati, coinvolge anche gli spettatori più riluttanti di tutto il mondo.

Nuovo Cinema Paradiso

L’inizio di Una pura formalità (1994) è strepitoso mentre la macchina da presa si inoltra nella boscaglia fino al colpo di pistola sparato apparentemente contro il pubblico. Nel segno dell’ambiguità l’incubo dello scrittore Onoff si sottrae al paradigma della verosimiglianza attestandosi sulla soglia del fantastico, alla frontiera tra realtà e finzione, in un lungo interrogatorio dall’inquietante temperatura metafisica. Si sottrae esplicitamente agli equivoci del neorealismo tipici di una lunga stagione del cinema italiano, mentre la tenuta del cinema di genere si salda al coinvolgimento di due straordinarie presenze attoriali come Depardieu, che mette a disposizione del racconto tutta la sua esuberante fisicità, e Polanski, ammiccante incarnazione della maieutica investigativa.

Lo scenario siciliano, assieme al cinema fabbrica di sogni, è al centro di L’uomo delle stelle (1995) che in tutta la prima parte squaderna davanti a noi la forza di una affabulazione grottesca che sembra rifarsi al Germi di Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta & abbandonata (1964). La truffa del cinematografaro Joe Morelli che gira di paese in paese con il camion della Universalia alla ricerca di volti nuovi innesca il meccanismo di un impietoso cinema-verità per cui davanti alla macchina da presa tutti mettono in scena l’autorappresentazione della propria disarmata soggettività.

Subito dopo La leggenda del pianista sull’oceano (1998), ambizioso kolossal esistenziale in grado di gareggiare con Leone e Fellini senza mai rinunciare al rapporto privilegiato con il cinema americano d’antan, Malèna (2000) ribadisce il voyerismo del regista insieme alla disinvoltura con cui passa dall’autorialità delle pratiche alte alle pratiche basse della commedia provinciale. Se il vago sapore brancatiano è sempre meglio dell’allegorico novecentismo alla Baricco, si direbbe che il regista-falegname (anche Tornatore ama l’immagine che Fellini aveva suggerito a proposito di Germi, il grande falegname) rimanga vittima della propria ossessiva cinefilia, gli riesca solo in parte la sfida di costruire un tavolo a tre gambe.

Il personaggio femminile – cercato senza successo da L’uomo delle stelle a Malèna – esplode finalmente in La sconosciuta (2006) con la forza emozionale del melodramma, illividito dai trucidi bagliori del thriller. Se non mancano gli espliciti omaggi a Hitchcock, Kubrick, Polanski, Fellini, la figura sfuggente e misteriosa di Irena s’impone negli spazi incubici di Velarchi, la città fittizia del Nord-Est italiano in cui è ambientata la vicenda. Una coinvolgente discesa agli inferi che si risolve nella singolare e straziante ricerca di identità che per andare a segno ha bisogno del complice sorriso di una figlia, anche di una figlia immaginaria.

La migliore offerta

Il successo di La migliore offerta (2013) conferma con uno dei suoi film più abili e sofisticati le straordinarie qualità di Giuseppe Tornatore, la sua piena maturità di narratore per immagini. Nel rarefatto scenario mitteleuropeo, è la scenografia che sembra guidarci nei percorsi a incastro della storia, dalla sala segreta in cui Virgil, uno strepitoso Geoffrey Rush, custodisce il suo museo privato di ritratti femminili, alla villa di Claire in cui la ragazza lo invita e si nega in una vertigine ammaliatrice. Quando alla fine il protagonista è in attesa nel ristorante di Praga circondato da tutta una serie di ossessivi ingranaggi, mentre la macchina da presa arretra in un carrello infinito siamo portati a pensare che il regista potrebbe esibire la scritta “de te fabula narratur”, dichiarazione di poetica del grande cineasta e della sua sontuosa capacità di costruttore di meccanismi narrativi, ma anche motto araldico del protagonista sullo schermo come dello spettatore in sala.

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