Sergio Leone, sognare in grande

by Orio Caldiron

Senza il passaparola non se ne sarebbe accorto nessuno. Quando nel settembre 1964 Per un pugno di dollari si affaccia in un cinemino di Firenze – la tipica sala popolare di cinquant’anni fa dove si fuma, si rumoreggia, si applaude – sembra una scommessa persa in partenza a cui non crede né la produzione che vi ha investito appena centoventi milioni, né la distribuzione che ne ha stampato pochissime copie.

Ma nel giro di qualche giorno il pubblico si appassiona e fa la fila per vederlo. Il mistero dei nomi fintoamericani che appaiono nei manifesti e nei titoli di testa è presto svelato e tutta l’Italia scopre che il regista Bob Robertson si chiama in realtà Sergio Leone, John Welles è Gian Maria Volontè, Don Savio il musicista Ennio Morricone. Subito rilanciato in grande nelle sale di prima visione, il film diventa un campione d’incasso da due miliardi che scatena l’avventura dello spaghetti-western, un mucchio selvaggio di oltre quattrocento titoli a cui il cinema italiano in crisi deve per parecchi anni la sua sopravvivenza.

All’epoca sono stati citati Shakespeare e Omero, Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni e Piombo e sangue di Dashiell Hammett, ma è innegabile che il plot derivi da La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa. Non è la prima volta che succede – I magnifici sette (1960) di John Sturges rifà in chiave western I sette samurai, mentre L’oltraggio (1964) di Martin Ritt si ispira a Rashomon – ma nessuno aveva saccheggiato il maestro giapponese con la sorniona prosopopea di chi pensa in grande e si serve della vicenda del samurai alle prese con la fida tra clan rivali per smontare il modello del western classico americano.

Sin dalle prime inquadrature in cui lo Straniero arriva a San Miguel a dorso di mulo, si capisce subito che siamo altrove, non ci sono più gli eroi tutti d’un pezzo di ieri, sono cambiate le coordinate morali e stravolti i tempi narrativi che alternano le lentezze estenuanti alle accelerazioni rapidissime, mentre gli spazi sono ora ristretti nei primi piani e nei dettagli, ora dilatati nei totali a perdita d’occhio. Se il segreto dell’epopea della frontiera è l’iperbole, tanto più avvincente quanto più riesce a sembrare credibile, il contrassegno leoniano è l’iperbole di secondo grado, tanto più efficace quanto più vistosamente incredibile, esagerata, ridondante, ossessiva.

Se si vede oggi Per un pugno di dollari  nella smagliante versione restaurata, ci si accorge ancora una volta di quanto il gioco illusionistico dell’immagine – in cui oltre allo Straniero si materializzano i Rojo e i Baxter, Marisol col figlio, l’oste Silvanito e il becchino Piripero – deve la sua proverbiale capacità di coinvolgimenti ai fragorosi motivi musicali di Ennio Morricone, agli squilli di tromba e ai fischi che squarciano il silenzio, ma anche ai rumori, dagli zoccoli dei cavalli agli spari, dal rotolare delle botti ai rintocchi delle campane, che animano la singolare sonorità del film. Il postmoderno strizza l’occhio alla pop art e il massacro di Rio Bravo, con il forsennato crepitio della mitragliatrice, rischia di sembrare oggi un videogame.

Straordinario testimonial del cinema popolare, sospeso secondo Bernardo Bertolucci tra “bella volgarità” e “grande sofisticazione”, è riuscito a fare della sua opera il pellegrinaggio alla fonte del proprio, personalissimo e viscerale rapporto con il mezzo in cui mito familiare e pulsioni collettive s’incontrano in modo sorprendente.

Nello pseudonimo di Bob Robertson – e cioè del figlio di Vincenzo Leone, celebre regista del muto con il nome di Roberto Roberti, e di Bice Waleran che nel 1913 diretta dal marito aveva interpretato La vampira indiana, mitico protowestern autarchico – l’omaggio sembra riassumere il lungo apprendistato del figlio d’arte che dal neorealismo alla Hollywood sul Tevere impara il mestiere metabolizzando insieme sguardo italiano e ottica americana, generi e autori, realtà e finzione, memoria e vissuto. Quando nell’89 scompare prematuramente a sessant’anni, sta finalmente per girare il sogno della sua vita, raccontando i novecento giorni dell’assedio di Leningrado sulla base del libro dell’americano Harrison E. Salisbury. Avrebbe voluto fare anche Viale Glorioso, dal nome della scalinata di Trastevere dove giocava ai cowboy da ragazzo. O portare sullo schermo Viaggio al termine della notte di Céline, il romanziere politicamente scorretto che non si stancava mai di rileggere: “Viaggiare è utile, fa lavorare la fantasia. Tutto il resto è delusione e fatica. Questo nostro viaggio è interamente immaginario. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, tutto è inventato. Tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altro lato della vita”.

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